sabato, 23 Novembre, 2024
Cultura

“Ferito a morte”. Intervista a Roberto Andò

Spuma, rumore di onde infrante senza clamore, quasi lente e rassegnate nei suoni, il palcoscenico che diventa un bagnasciuga che imita l’andamento dei rapporti umani, le tensioni e le cadute che si risolvono in una tragica immobilità del tempo che “ti ferisce a morte o t’addormenta” mentre la vita scorre via dalle mani come sabbia: così potrei parafrasare il contenuto del magnifico spettacolo di Roberto Andò, andato in scena al teatro Argentina e ora in tournée in tutta Italia. “Ferito a morte” infatti, pur avendo una connotazione di luogo e di tempo precisa, la Napoli del dopoguerra, è portatore di un contenuto eterno, sempre attuale, che sempre interroga, perché tali sono le istanze umane. Questo è il grande teatro che interroga diritto il volto lo spettatore.

Roberto Andò trasferisce sul palco del Teatro Argentina, nell’adattamento firmato da Emanuele Trevi, il romanzo capolavoro che nel 1961 valse il Premio Strega a Raffaele La Capria, Ferito a morte, un diario romantico dove la vicenda umana del protagonista si estende ai fantasmi della Storia e alle macerie del Dopoguerra per una profonda riflessione sul tempo, che continua a sfuggire, ma anche sulla giovinezza e l’amicizia. Dal romanzo alla scena si snoda la vicenda di un’esistenza narrata nell’arco temporale di undici anni – dall’estate del 1943 quando, il protagonista Massimo De Luca incontra Carla Boursier durante un bombardamento, fino al giorno della sua partenza per Roma all’inizio dell’estate del 1954 – attraverso un reticolato di ricordi, frammenti, episodi e combinazioni che si ricongiungono in un racconto condensato nello spazio di una sola mattinata. Una polifonia di voci, personaggi, visioni e storie che trovano collocazione nel ritratto di una città, la Napoli del Dopoguerra, che «ti ferisce a morte o t’addormenta», sovrapposta alla società borghese dell’epoca, apatica, fallita materialmente e moralmente, annoiata, immersa nell’immobilità.

Questa è l’Intervista a Roberto Andò:

La scelta di una scenografia corposa, che si snoda su più piani, che rimanda attraverso uno specchio obliquo altre porzioni del reale, offrendo un’esperienza immersiva è data dalla sua maestria cinematografica?
Questo è inevitabilmente dentro di me, ma qui come dice Trevi c’è più il regista scrittore, ossia la capacità di cogliere un tempo interiore che è proprio della letteratura e trasferirlo nel teatro. La frantumazione non ha molto a che fare col cinema ma con la letteratura col pensiero, con quella che è, appunto, una penombra mentale. Il protagonista è un uomo che convoca nella sua mente persone fatti sensazioni. Il convocare nella mente, al cinema può avvenire, ma è un fatto tipico della letteratura. Anche l’allestimento, importante, che abbiamo realizzato, ha assolto il ruolo di creazione di questa penombra mentale.

Tutto accade in un giorno, nello stesso luogo, quasi in rispetto delle antiche leggi aristoteliche, ma i personaggi sono distanti dall’eroismo antico, sono uomini medi, come noi, che ne pensa?
Basti pensare all’Ulisse di Joyce, al suo monologo interiore, tutto apparentemente si svolge in un giorno, ma il pensiero corre sul filo degli anni. Qui il tempo di un giorno convoca persone e periodi diversi, così il pensiero si fa molto complesso, carico. L’unità aristotelica c’è ma è frantumata dalla dominanza del pensiero, da questa accezione novecentesca. La Capria è stato uno dei primi scrittori a sperimentarla, cogliendo la lezione di grandi maestri come Virginia Woolf, Marcel Proust, realizzando questa dilatazione e contrazione del tempo nello spazio di una sola giornata.

Il romanzo porta un messaggio universale, l’attesa della vita, l’ansia di vivere, che trova una sua narrazione nel momento in cui è alle spalle, in cui la si ricorda. Qual è la sua visione?
Questo spettacolo offre un vissuto su cui tutti si possono proiettare. Chi non ha avuto degli amici, chi non ha dovuto lasciare un luogo, magari per andare a lavorare altrove, trovandosi a fare un bilancio tra ciò che si perde e ciò che si guadagna. Chi non ha avuto il rimpianto per un amore che è fallito. Questa resa dei conti è universale, riguarda ognuno di noi. In più c’è questo sortilegio, questo sentimento malinconico, che nello spettacolo forse è ancora più accentuato rispetto al romanzo, dello sciupio del tempo, della dispersione del tempo, dell’erosione a cui una vita è soggetta, anche a partire da cose che erano profondamente incise nella memoria, e invece sbiadiscono pian piano.

Non troviamo nello spettacolo un sentimento che salva, che resiste, che resta. Qual è l’interrogativo che pone lo spettacolo?
In questo senso il libro è proprio un classico e le questioni che pone sono rinnovate nel tempo. Nel libro c’è una materia storica: il dopoguerra, un certo tipo di borghesia. Ma oggi le domande e le istanze sono rimaste identiche. Il tema del fallimento della borghesia è attuale. Poi c’è il tema dell’esistenza, del suo significato, del suo senso, e sono domande che restano totalmente valide ancora oggi. Altro aspetto molto importante è che La Capria è un grande scrittore, che si muove dentro una struttura complessissima, quale quella che ha architettato, ma con una semplicità letteraria che viene dal lavoro sulla frase. Questo è uno spettacolo di concertazione, in cui la lingua diventa quasi una musica. Il romanzo, secondo me, esprime il desiderio di ricostruire il senso di una vita fino a riportarla in una dimensione liquida. Con questo spettacolo abbiamo cercato proprio di dare forma al significato voluto dall’autore, anche attraverso il mare e lo scorrere dell’acqua.

Perché ha scelto di portare in scena “Ferito a morte”?
Mi interessa molto il fatto che nell’opera l’autore fa un’istruttoria che è proprio una resa dei conti col proprio luogo d’origine. Mi affascina poi l’aspetto strutturale. Io mi sono avvicinato al teatro nel momento in cui grandi maestri, come Bob Wilson, scardinavano il tempo e lo spazio e questo mi ha segnato.

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