Il dolore fisico e la sofferenza possono essere affrontati in vari modi. L’approccio artistico è, senza dubbio, quello più originale ed efficace, se guidato da professionisti di spiccata sensibilità che aiutano il paziente a ritrovare la sua identità e ad affermarla, a prescindere dalla malattia.
Rosalba Panzieri non è solo un’attrice, ma un’anima nobile che ha scelto di mettere la sua arte al servizio degli ammalati per far percepire a tutti sensazioni ed attese. Finanche dei degenti più piccoli che vivono la loro presenza in corsia con disincanto.
Un lavoro che non si limita alla mera rappresentazione, perché scava a fondo nell’animo umano. Questo, e molto altro ancora, è il Progetto Cartella clinica umanizzata…
Rosalba Panzieri, per raccontare questa esperienza serve un’ analogia con un film diventato cult: “Il grande Lebowski”, parafrasando l’incipit narrativo del film dei fratelli Coen, “…A volte si incontra una donna. Si incontra una donna… A volte” Rosalba racconta storie di ansie, paure, tormenti, momenti intimi, scoramenti, rabbia, disperazioni e speranza. Un groviglio di emozioni di quelle che ti fanno stringere la gola solo a sentirle, perché quando si combatte con una malattia che ti vuole annientare, allora viene fuori un qualcosa che si chiama forza e umanità, e lei, porta alla luce questa vena sotterranea di emozioni dandole voce, occhi, gesti, e azione. Rosalba, attraversa le corsie di ospedali, raccoglie i sentimenti, le voci del cuore, di chi lotta e ne trae delle storie che diventano il motivo conduttore di un piece teatrali, la socializzazione di una malattia che non è una sconfitta di chi “subisce i colpi avversi della sorte”, ma un modo per risalire e riemergere dal mare nero del dolore a uno spiraglio di vita, di chi teme di essere sopraffatto dal proprio corpo, da ciò in cui pone la massima fiducia, ossia sé stessi.
Incontriamo Rosalba Panzieri a Roma, ed è subito un piccolo evento di cultura e ammirazione. Bella donna dagli occhi chiari, 41 anni, nata a Rieti, scrittrice, attrice, forse anche un po’ funambolica in bilico tra Becket e Chaplin. Non è un medico ma una attrice che racconta ciò che ha ascoltato e visto.
Una narrazione che corre su un filo solitario quanto complesso: quella di una attrice davanti ad un pubblico con la consapevolezza di mantenere la dignità e forza di ciò che ha ascoltato nelle voci di bambini in un ospedale oncologico, e avere la lucidità magnetica di far comprendere ad una platea la complessità della “Macchia umana”, e di come solo una umanizzazione empatia della vita di chi soffre e di quanti stanno bene, può aiutare l’esistenza di tutti a comprendere la fragilità della esistenza.
Come sei arrivata a realizzare il tuo progetto, ‘Cartella clinica umanizzata’?
“Un laboratorio di ricerca che è nato nel 2012 in cui si raccoglievano le storie dei pazienti ospedalizzati al San Filippo Neri a Roma nel dipartimento cardiovascolare.
Storie vere di vita che pensavano solo alla morte e che invece sono tornati a vivere grazie alle cure mediche.
I racconti erano il preludio del progetto. Io sceglievo alcune storie, le più sentite, e le mettevo in scena”.
Avevi anche un rapporto diretto con i pazienti. Il tuo lavoro era ascoltare e raccontare?
“Recitavo in corsia ed alcune storie, invece, le ho inscenate in teatro. E’ l’attore che racconta cosa accade. Ed era così che la malattia aveva voce dalla narrazione a la divulgazione attraverso il teatro”
Quando tempo hai dedicato alla ricerca e poi alla realizzazione di performance?
“In 8 anni tra letteratura e ricerca ho vissuto nel reparto accanto ai pazienti per comprendere le malattie ed aiutarli a guardare oltre. I pazienti non sono più un numero, ma una storia completa. Ho cercato di ridare vita alle identità”.
Parlaci dei riconoscimenti avuti dal tuo progetto.
“Nel 2013 è stato validato dal CNR (Consiglio nazionale ricerche), dalla FNMCEO (Federazione nazionale dei medici chirurghi e odontoiatr), dall’AOPI e ANMDO.
Quali gli ambiti della tua ricerca?
“Il mio percorso si sposta da cardiochirurgia ai reparti neonatali, fino ad arrivare in quelli oncologici”.
Sono esperienze dure, che ti fanno star male. Ci puoi parlare dei ricordi più difficili?
“La mia esperienza più dura è stata nel reparto di pediatria dipartimento neonatale a Pordenone, e così ho concepito un nuovo modello pediatrico in cui figli e genitori si raccontano”.
I bimbi fanno parte della tua esperienza, in che modo. La loro sofferenza è la più dura?
“I bimbi hanno una visione del mondo diretta senza filtri. Le parole dei bambini fanno capire cosa sia la vita in senso assoluto”.
Lavori anche molto con istituzioni diverse, talvolta che appaiono distanti dal teatro e ospedali. Come è nata la sinergia con la Marina Militare e il Mibact?
“Dal 2014 sono iniziate le prime collaborazioni con la direzione generale del cinema Mibact e con le maggiori bande e orchestre dell’esercito italiano ; in particolare della Marina Militare italiana”.
Quali prospettive ha il tuo progetto?
“Dopo la ricerca e la sperimentazione il progetto ora è organizzato e validato, ed è una sorta di sperimentazione scientifica che viene accolta da almeno 2 ospedali in ogni regione d’Italia”.
Con quali risultati?
“Ad oggi la storia dei pazienti viene inserita in cartella clinica e trattata in modo scientifico con tutti gli altri dati anamnestici. Dopo una formazione ECM al personale sanitario, lo stesso personale specializzato darà al paziente un modulo “modulo di narrazione Alfa” dove il paziente narra la sua vita”.
Il progetto ha ambizioni internazionali non resta che augurare un buon lavoro!