“Io non vivo: vivono i miei organi; vive il mio senso del dovere; vive il mio amore razionale, vive una piccolissima parte di me grazie alla quale tutto il resto non muore”. Rosita Terranova, è la mamma di un ragazzino speciale di nome Antonio Maria destinato ad una vita molto diversa da quella dei coetanei.
Non corre, non parla; la sua esistenza è appesa ad un filo rappresentato da cure spossanti e costose, burocrazia e indifferenza delle istituzioni. Eppure basta fissare per un attimo il suo sguardo per capire tutto.
Ieri è stata celebrata la Giornata internazionale delle persone con disabilità (proclamata nel 1981 con lo scopo di promuovere i diritti e il benessere dei disabili). Ne abbiamo approfittato per proporvi il racconto di questo mondo attraverso i pensieri di una careviger familiare che vive nel profondo Sud e che lotta, giorno per giorno, per difendere il diritto alla vita ed alla salute del proprio figlio e di tutte le persone che si trovano nella sua stessa condizione.
Rosita, cos’è per lei la disabilità?
“La condizione di disabilità viene comunemente intesa come l’assenza o la mancanza di quella capacità grazie alla quale si può fronteggiare una determinata situazione o grazie alla quale si può portare a compimento un compito specifico.
Per me è soprattutto una grande opportunità di miglioramento e di noi stessi e della società che ci circonda. Tutto sta nel vedere come si reagisce alla mancanza di una certa abilità e alle conseguenze che da questa assenza derivano.
Non è detto che un limite si debba, per forza, superare; si può anche serenamente accettare, spostando l’attenzione su altro, senza fermarsi, dunque, solo su ciò che non ci è permesso compiere. Vede io sono una persona resa disabile dalle istituzioni e dalla società civile…
Si spieghi meglio…
“Sono resa disabile dalle istituzioni e dalla società civile, quando entrambe, volutamente, non applicando alcune leggi, non riempiendo un vuoto normativo che in Italia esiste, violando i miei diritti, mi rendono incapace di portare a termine alcuni compiti o di far fronte ad alcune situazioni.
Devo anche aggiungere, però, che non soffermandomi su questi limiti, sono riuscita – e per questo mi reputo una persona privilegiata – a trasformare la mia sofferenza in impegno nel sociale e per il sociale. Per questo motivo la mia sofferenza smette di essere fine a se stessa e diventa una molla che mi spinge a lottare per me e per gli altri.
Tornando alla sua domanda non so gli altri cosa vedono nella disabilità. Per quanto mi riguarda sono consapevole di poter fornire punti di vista diversi, grazie ai quali, un giorno, altre persone si convinceranno – come me – che la disabilità salverà il mondo. E lo salverà quando ogni condizione di disabilità verrà considerata come una opportunità di esprimere pienamente se stessi per apportare innovazione in ogni aspetto della vita delle persone”.
Quali interventi occorrerebbe adottare a livello legislativo per una vera uguaglianza tra cittadini?
“A mio avviso nessuno, perché la miseria umana e culturale in cui siamo costretti – parlo dei nostri cari affetti da disabilità e di noi stessi che ci occupiamo di loro – è determinata da questo maledettissimo concetto di uguaglianza che è assolutamente deleterio”.
In che senso?
“L’uguaglianza non esiste e nessun intervento legislativo potrà mai creare, determinare e mantenere l’uguaglianza. Semplicemente perché non esiste, se non a livello concettuale. Fossi un legislatore punterei esclusivamente a valorizzare, propagandare e supportare il concetto di equità. Solo l’equità è, dal mio punto di vista, ciò che può dare davvero a chiunque, quindi a tutti, reali e importanti, oltreché efficaci, opportunità esistenziali. Fino a quando si parlerà di uguaglianza si nuocerà alla disabilità”.
Parliamo della condizione dei caregiver familiari…
Il termine “caregiver” è ormai entrato ormai stabilmente nell’uso comune; indica colui che si prende cura e, in genere, ci si riferisce ai familiari che assistono un loro congiunto ammalato e/o disabile. Bisogna, però, sgomberare il campo da un equivoco che inficia qualunque ragionamento riguardi questo argomento. Mi spiego meglio. Alla luce di questa definizione, mutuata in un ddl che speriamo, per il bene di tutti, non veda mai la luce, si ritiene che tutti (un papà, una mamma, un fratello o una sorella, un partner, un collega, un amico) possano svolgere l’attività del careviger, prendendosi cura della persona affetta da disabilità”.
Non è così?
“Assolutamente no. Prendersi cura di un disabile grave o gravissimo presuppone l’acquisizione di alcune nozioni particolari e l’uso di strumenti specifici che, a mio avviso, dovrebbero essere attribuite solo a persone adeguatamente formate a seguito di un percorso formativo vero e proprio e che svolgano questa attività come lavoro e non come obbligo morale. L’essere genitore, fratello, nonno, partener non deve essere intaccato dall’obbligo di dover, per forza, imparare a gestire in maniera, anche tecnica, la vita di un’altra persona, perché che se da una parte ci sono persone naturalmente portate a comprendere alcune cose e a saper gestire al meglio le situazioni, dall’altra ce ne sono altre incapaci di reggere questa condizione di sofferenza permanente o che, addirittura, la rifiutano. Posso aggiungere una cosa?”.
Prego…
“Il disabile grave o gravissimo è una persona che, come tale, ha una sua emotività, a cui bisogna stare molto attenti e che, anzi, bisogna stimolare e proteggere. Quando un genitore, soprattutto se è solo, è costretto ad essere 24 ore su 24, infermiere, medico, fisioterapista, logopedista, neuro-psicomotricista e anestesista non può anche stare attento – ammesso che riesca a incarnare tutte queste figure professionali – all’emotività della persona di cui si prende cura. C’è, poi, un altro aspetto, non secondario, da considerare, nel senso che si va incontro ad un fenomeno molto pericoloso: l’annullamento della personalità della persona caregiver in nome del benessere dell’assistito. Molto spesso il caregiver per compiere al meglio il proprio compito cerca di immedesimarsi nella persona che assiste e lo fa annullando l’elemento della soggettività. Tutto questo è totalmente sbagliato”.
Come descriverebbe la vita di un caregiver familiare?
“Non so come vivono gli altri caregiver familiari, ma posso immaginarlo. Basta scorrere i social per leggere il dolore e la sofferenza che deriva dallo stato di isolamento. Per quanto mi riguarda, io non vivo: vivono i miei organi; vive il mio senso del dovere; vive il mio amore razionale, vive una piccolissima parte di me grazie alla quale tutto il resto non muore”.