lunedì, 18 Novembre, 2024
Il Cittadino

La (non) politica che non appassiona

Avverto una completa disattenzione attorno alla politica, un disinteresse assoluto: che giustifico in pieno.

Il dibattito politico – pardon: partitico, perché di politica non c’è nulla – è noioso, fatto da persone malinconiche che neppure credono al nulla che declamano: slogan che, scissi ormai definitivamente da qualsiasi ideologia, sono finalizzati soltanto a difendere interessi settoriali con lo scopo di indurre a recarsi alle urne i destinatari degli stessi.

Quindi declamazioni non per esprimere idee o tentare di convincere qualcuno, ma soltanto per far capire ad un target ben definito di destinatari che una certa loro posizione potrebbe risultare compromessa se vincesse l’altra parte.

In tutto ciò è un conformismo che spaventa, in una cultura che definisce aprioristicamente quasi tutto, ponendo in una posizione di disadattamento chi non si adegua.

Non c’è un modello di Stato da discutere, non c’è un’idea di società diversa.

Solo impercettibili differenze di posizionamento in relazione ai medesimi temi: il Cnrr, i benefici dalla UE, le tasse.

Il soporifero messaggio che sta passando è che, comunque ed in ogni caso, dovrà essere un governo rassicurante per i partner europei e tranquillizzante per i “mercati”, autentici dittatori senza volto della nostra epoca.

Così che persino la Meloni – accreditata di un successo elettorale importante – sta giorno dopo giorno, sempre di più acquisendo le qualità richieste.

Letta e il PD non le crede (Calenda sì) e rilancia slogan d’annata, richiamando ripartizioni e muri tra destra e sinistra che, francamente, credo siano compresi solo dalle generazioni come la mia, mentre rimangono estranee a quelle dei miei figli ed ai millennial, ormai pienamente elettori.

La verità è che oggi destra e sinistra – al netto di personaggi politici che puntano più sul folklore che altro – si sono ridotti a differenziarsi quasi esclusivamente sulle tasse: che sono belle per una sinistra fatta quasi soltanto da pubblico impiego e pensionati; che sono brutte e devono essere tagliate per il centro-destra: Forza Italia e Lega in particolare: FdI ne parla molto meno, forse per quella matrice sociale, che neppure la deviazione del fascismo, ha interamente cancellato.

Discorso sulle tasse che sarebbe lunghissimo: la riforma dovrebbe essere radicale e tendente soprattutto a semplificare ed automatizzare il sistema. Non si possono richiedere a imprese e partite Iva più di duecento adempimenti l’anno. Non si può continuare a vessare e colpire i redditi bassi, con l’Irpef, privandoli poi di un ulteriore 22% con l’IVA sui consumi. Non si può parlare di evasione fiscale per il bottegaio che non batte uno scontrino di due euro e determinare il legittimo trasferimento all’estero della sede di industrie nostrane.

A parte ciò solo concetti vuoti e petizioni di principio.

Tutti d’accordo contro la burocrazia, ma nessuno dice come semplificarla, mentre ogni legge approvata, scritta da burocrati e non da giuristi, la rende più potente e più inesplicabile. Così come la giustizia: tutti d’accordo nel riformarla, a condizione che non cambi nulla e che non si tocchino istituti e capisaldi che, se mutati, determinerebbero veramente una riforma. Con una guerra di posizione che – ed è il rovesciamento di fronte più incredibile, quello che non digerisco – vede l’area così detta di sinistra cavalcare la strada del giustizialismo, del colpevole ad ogni costo e della pena prima della condanna, in nome di una guerra alla mafia che si sta combattendo da soli: perché la mafia è cambiata, gioca in un campo diverso e il giudice può accertare il reato e punire il mafioso, ma spetterebbe alla politica contrastare il fenomeno. Giustizialismo di sinistra con alcune importanti voci dissonanti: Tiziana Maiolo, Sansonetti, Ammendolia, e pochi altri; oltre ai radicali, che la sinistra non ha mai digerito (l’unica volta che un amico del cuore, attivamente comunista, l’indimenticabile Giorgio Schirripa, si arrabbiò con me fu quando gli dissi di avere votato radicale, invece del mio solito PRI).

Mentre l’area così detta di destra abbraccia la strada del garantismo. Solo apparente, però; perché come avverte Salvini vale solo per i borghesi (categoria di cui non si parla più e che, forse, andrebbe rivalutata): per gli altri maniera spiccia e gettiamo la chiave.

Un dibattito partitico vuoto, senza ideologie, con destinatari già identificati e classificati e con nessuno da convincere. Con interesse che si accende soltanto sulle polemiche delle liste: perché oggi non si viene eletti, ma dichiarati parlamentari: non per diritto o per nomina regia, come avveniva col Senato del Regno, ciò che dava comunque dignità all’istituzione. Ma per nomina dei piccoli leader di quello che residua di un sistema partitico che ad ogni elezione perde il senso del suo essere e che svilisce e mortifica le Camere, sempre più viste non per l’importante funzione legislativa che dovrebbero assolvere (la delega al Governo dovrebbe essere l’eccezione), ma come luogo di privilegi.

Non ci stupiamo allora se – azzardo una previsione – il 25 settembre voterà soltanto il 60%.

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