In Italia vige il principio del tutto è vietato, tutto è tollerato. Miriadi di leggi (nessuno sa quante siano) regolano nei minimi dettagli qualsiasi attività.
Questo il fine dichiarato. Lo scopo realmente ottenuto, invece, è quello di tenere in soggezione i sudditi (se vi fossero cittadini si sarebbero da tempo già rivoltati): la farraginosità dei regolamenti si spinge al punto che nessuno è mai sicuro di “essere in regola” e la facilità con cui si incorre in violazioni accresce il potere burocratico (ma anche quello giudiziario).
L’unico mezzo di sopravvivenza è dato dalla tolleranza dei comportamenti non conformi a legge, se non addirittura illeciti e – in barba alla certezza del diritto (istituto giuridico dimenticato completamente dalle nostre parti) – dalla casualità delle sanzioni: che colpiscono una irrilevante minoranza, per pura casualità o per specifica volontà di nuocere verso qualcuno o di compiacere qualche altro.
Una metafora di tale principio è data dal traffico di Roma: e, avvertiamo subito, non è un attacco alla Sindaca Virginia Raggi, trattandosi di una situazione antica.
Le norme sulla circolazione stradale sono precise e da tutti conosciute; tutti sono consapevoli che la loro violazione comporta una sanzione: che, nel tempo ha perso la sua funzione originaria di punire un comportamento vietato, per acquisire la funzione attuale (ovviamente non dichiarata ed illegittima) di fare cassa.
Tali norme vengono sistematicamente violate da tutti i conducenti di un qualsiasi veicolo: dalle biciclette (che violano i sensi unici e non rispettano i semafori), ai ciclomotori e motocicli, alle automobili ed agli autobus.
La norma più violata è certamente quella che regola la sosta e la fermata: Roma è una città che sopravvive parcheggiando in divieto di sosta; o fermando la macchina in doppia o tripla fila: che è un modo per affermare la prevalenza dell’interesse particolare ad accedere comodamente al negozio sito due o tre file più in là, rispetto all’interesse generale di garantire la fluidità del traffico.
L’amministrazione comunale da tempo ha rinunciato a tentare di regolare il traffico. Si limita a fare cassa con sanzioni inflitte per lo più per mezzo di telecamere (dagli autovelox, ai semafori “intelligenti”) o, sporadicamente, da pattuglie motorizzate di vigili urbani che, con periodicità mediamente trimestrale, piombano in una strada, multano tutte le auto in quel momento in sosta e scappano velocemente, prima di qualsiasi reazione.
L’utente della strada così è cosciente che evitando di parcheggiare senza ticket nelle strisce blu (quelle controllate da ausiliari) rischia di prendere tre o quattro contravvenzioni l’anno a fronte di centinaia di parcheggi vietati.
Una situazione unica ed incredibile: in qualsiasi altra capitale occidentale si è certi che ad un parcheggio irregolare corrisponde una certa sanzione (ecco cos’è la certezza del diritto: violo una legge, vengo sanzionato), se non addirittura la commissione della violazione non viene impedita dalla presenza sul territorio del vigile: che, comunque, ti fa la multa e ti fa spostare l’auto. Laddove, da noi, la multa serve solamente alle casse comunali, ma nessuno sposta l’auto o non parcheggia più in quel luogo: anzi il sapere che ieri hanno fatto le multe in quella via, determina una garanzia di impunità per un certo tempo.
Al punto di chiedersi, da giurista, se sia lecito applicare una sanzione amministrativa che non persegue più la ratio ispiratrice della norma, ma che serve solamente a fare cassa.