mercoledì, 18 Dicembre, 2024
Il Cittadino

Sanità in Calabria, quando il non fare aiuta la mafia

Il Governatore della Calabria, Roberto Occhiuto, in una intervista di domenica scorsa al TG4, ha dichiarato: «La sanità in Calabria, negli ultimi dodici anni, è stata governata da commissari mandati come se si trattasse solo di vigilare su un sistema ingovernabile, a causa della corruzione o della ‘ndrangheta. Molte volte però la ‘ndrangheta, che fa schifo, diventa anche un alibi per abbandonare la nostra regione a se stessa».

Dichiarazione che non è passata inosservata, ma che, a parte commenti “di pancia” in un senso o nell’altro, non ha aperto quel dibattito, quella riflessione meditata e responsabile, che il problema posto – ormai di valenza nazionale, non soltanto regionale – richiedeva.

Naturalmente, come spesso avverto, le mie disquisizioni domenicali non hanno mai la pretesa di risolvere un problema: semmai di enunciarlo e, come sarebbe ambizione nel mio intervento odierno, porlo nella giusta dimensione.

La denuncia di Occhiuto – ovviamente riferita alla Calabria, dove il fenomeno è più evidente – è quanto mai precisa: la mafia diventa spesso un alibi per il “non fare”, la comoda e vigliacca soluzione, adottata spesso anche da chi rappresenta lo Stato, di non risolvere i problemi.

L’esempio che fa Occhiuto sullo sfascio sanitario della Regione deve fare veramente riflettere: dodici anni di commissariamento della Sanità calabrese che non sono serviti né ad approvare un bilancio, né a creare un sistema moderno, ma solamente a chiudere e mantenere chiusi diciotto (18!) ospedali pubblici ed a determinare l’emigrazione di eccellenze sanitarie che brillano ora più a Nord. Badate: l’emigrazione sanitaria non è casuale, non si va a Roma o a Bologna o a Milano alla ventura: si insegue il professore calabrese emigrato a Roma, a Bologna o a Milano.

La finalità reale perseguita in quei dodici anni, in realtà, non era quella di risanare la Sanità, ma di evitare qualsiasi iniziativa che potesse suscitare un interesse della mafia. Con ciò inchinandosi proprio alla mafia, riconoscendo il massimo potere alla stessa, un’ammissione esplicita di impotenza, un inchino alle conserterie mafiose.

Il problema è molto serio e non si potrà mai risolvere con le attuali inadeguate regole dell’antimafia, né con una lotta lasciata solo alla magistratura: che può intervenire soltanto dopo che il reato è stato compiuto, ma la cui azione non scalfisce il fenomeno in sé, che – ne sono convinto e lo ripeto – si combatte solo con un’incisiva azione sociale e con l’offerta di alternative che facciano perdere attrattiva alla soluzione mafiosa.

Le norme oggi in vigore fanno propendere proprio per la soluzione del “non fare”. Troppo fumoso ed incerto il non codificato reato di partecipazione esterna ad associazione mafiosa; troppo rischioso avere contatti con soggetti ed imprese di certi territori o con soci e titolari provenienti da certi territori, essendo immanente la sconcertante presunzione di mala fede, qualora venga avanzato contro gli stessi il “sospetto”, una semplice supposizione di mafiosità.

Si tratta di un problema molto complesso. Perché esso non si attua nell’escludere imprese già individuate e colpite dalla così detta interdittiva antimafia, ma anche di valutare se l’impresa pienamente in esercizio con la quale si contrae, possa essere successivamente colpita dalla interdittiva: perché in tal caso, con effetto retroattivo, opera la presunzione che l’altro contraente era a conoscenza di ciò che neppure occorre sia dimostrato.

Interdittiva antimafia che può colpire anche le pubbliche amministrazioni: le quali non hanno difesa, non tanto nei confronti della Legge che – per quanto un garantista come me rivendichi sempre maggiori spazi – offre una qualche possibilità giurisdizionale; quanto nei confronti della mafia stessa: che se vuole far sciogliere un Comune, non ha che da mostrarsi pubblicamente. Errore che l’evoluta ‘ndrangheta di oggi, esattamente descritta nei libri del Procuratore Gratteri come capace di cogliere opportunità e mutamenti della nostra Società, non commetterebbe di certo nei confronti di un’amministrazione amica.

Così che il problema, anche quello del “non fare” si riporta al garantismo: non servono sospetti da tenere sulla graticola per anni, ma il veloce accertamento di eventuali reità, personali o societari.

E la libertà di rapporti con chi abbia la capacità di agire, salvo il concreto e granitico accertamento di coinvolgimenti, consorterie, complicità, ma senza la scorciatoia di presunzioni legali contro natura.

La certezza del diritto, insomma: senza la quale, specialmente in territori come quello calabrese,  ma non solo, sarà conveniente sempre non fare.

Anche perché col “non fare” ci si mette in qualche modo al sicuro; mentre, invece, con la politica del fare – che mi auguro che il Presidente Occhiuto comunque percorra ed imponga ad ogni livello amministrativo – il rischio di un’accusa di amicizie pericolose è sempre in agguato.

La domanda a questo punto è d’obbligo: fare ciò che va fatto è un’azione normale o un gesto eroico?

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