Da maggio scorso sono sbarcate in Italia circa 12.000 persone, in maggioranza partite da Libia e Tunisia, 6.000 solo a luglio. Le nazionalità sono le più varie, africani ma anche asiatici, una conferma che le rotte migratorie cambiano. Ma gli sbarchi fortunosi via mare, in balia di trafficanti senza scrupoli, non possono continuare a rappresentare l’unica via di accesso all’Europa.
Al momento l’unica alternativa civile, umanamente accettabile e simbolo di una sinergia virtuosa tra società civile e istituzioni, è rappresentata dai corridoi umanitari (CU), nati dalla collaborazione ecumenica tra protestanti e cattolici (Federazione delle chiese evangeliche in Italia, Tavola valdese e la Comunità di Sant’Egidio). I CU non pesano in alcun modo sullo Stato perché i fondi provengono in larga parte dall’8xmille delle chiese cattoliche e metodiste.
Firmato un nuovo protocollo
Il primo progetto sperimentato in Europa è nato da un Protocollo d’intesa del 2015 con i Ministeri degli Esteri e dell’Interno, che ha permesso a 1000 profughi siriani di raggiungere l’Italia su un normale volo di linea. Nel 2017 è stato firmato un secondo progetto analogo per altri 1000 profughi. Il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, lo definì “un momento di realizzazione concreta dei principi della Costituzione italiana” e il Parlamento europeo ha auspicato l’estensione dell’iniziativa anche ad altri Paesi Membri. In questo giorni è stato firmato un terzo protocollo, per l’ingresso di ulteriore mille profughi. “La firma di un nuovo accordo è un evento di grande importanza – ha affermato Marco Impagliazzo, presidente della Comunità di Sant’Egidio -. A causa della pandemia la crisi migratoria è andata peggiorando e la situazione di milioni di persone in fuga da guerre, fame e condizioni di vita intollerabili rischia di scomparire dai riflettori. Con questo accordo l’Italia sceglie di fare la sua parte”. I beneficiari, una volta giunti in Italia, sono accompagnati in un percorso di integrazione legale-giuridico, lavorativo, scolastico e sanitario, verso il raggiungimento di una graduale autonomia.
Bisognerebbe raccontare di più le loro storie
Secondo Marta Bernardini, coordinatrice di Mediterranean Hope, il programma che fornisce sostegno medico a tutti quei profughi che nei paesi di transito si vedono negati l’accesso alle cure per mancanza di risorse economiche, i continui arrivi sono troppo “poco raccontati” nella loro essenza. “L’11% dei profughi sono donne, che spesso portano con sé i figli o sono incinte, anche se la maggior parte dei minori arriva senza famiglia. Tra i tunisini ci sono interi nuclei famigliari, indice che in quei paese sta accadendo qualcosa, se intere famiglie scelgono la via del mare portando con sé quel poco che hanno. C’è poi chi arriva dai centri di detenzione in Libia e porta i segni delle torture o ha ferite invisibili come traumi e spossatezza. Spesso si ha la sensazione che molti si fanno forza per resistere fino al molo, poi, appena toccata terra, crollano. In tanti svengono, hanno dei malori, si accasciano. Le donne, se incinte, partoriscono. Ma purtroppo il reparto maternità sull’isola non c’è più”.