lunedì, 23 Dicembre, 2024
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Il club deal, uno strumento che piace alle Pmi

Liquidità sul conto in banca detenuta da una parte di italiani che potrebbe essere investita in modo redditizio. A parlare di questo “valore” è il professor Ubaldo Livolsi, con la sua riconosciuta esperienza nel mondo della finanza nazionale e internazionale. Per l’esattezza, osserva Livolsi, gli italiani detengono oltre 1.750 miliardi di euro sui loro correnti e il 70% dei nostri risparmi sono investiti all’estero. Livolsi spiega il ruolo delle tante società di “Private equity”, e l’affermazione de il “Club deal”, nuova forma di sinergia finanziaria che si rivela molto utile alle Pmi, e a quelle società a gestione familiare.

Nel contempo c’è lo scenario economico nazionale con l’arrivo dei fondi Ue e i progetti del premier Draghi che gestirà con il Pnrr, fondi e iniziative che vengono interpretate positivamente dalle imprese come “sentimento di ripartenza”. 

Prof. Livolsi, negli ultimi anni abbiamo visto fiorire nuove strutture, anche nel nostro Paese: holding quotate o non quotate; fondi quotati; SPACs; accordi strutturati di co-investimento; club deal; investimenti diretti da parte di family offices (anche consorziati tra loro) e fondi sovrani, sempre più attivi e presenti in questo segmento; evergreen funds; umbrella funds; search funds; pledge funds; fondi ibridi e fondi di private debt in tutte le loro molteplici articolazioni. Tanti nuovi strumenti per fare la stessa cosa: identificare aziende e imprenditori promettenti sui quali investire, aiutandoli nel loro percorso di sviluppo e valorizzazione nella speranza, se le cose andranno bene e le aziende avranno effettivamente aumentato il loro valore, di realizzare un ritorno sull’investimento nei tempi e nei modi che, di volta in volta, saranno ritenuti i più opportuni, condividendo tali guadagni tra gestori e investitori. È questa l’essenza dell’attività di private equity. Ma quali saranno i filoni principali sui quali si svilupperanno le nuove soluzioni?
In Italia c’è abbondanza di liquidità, gli italiani detengono oltre 1.750 miliardi di euro sui loro correnti e il 70% dei nostri risparmi sono investiti all’estero. Registriamo da tempo una mancanza di fiducia e timore a capitalizzare nel nostro Paese, situazione peggiorata da tempo dai tassi  bassi dati dagli investimenti obbligazionari e azionari,  dall’altra ingigantita negli ultimi anni dalla crisi del sistema bancario e dall’avvento dalla pandemia per ultimo. Tuttavia col Governo presieduto da Mario Draghi e il Pnrr, con i primi 25 miliardi di Next Generation EU destinati all’Italia in arrivo ad agosto, viviamo un sentimento di ripartenza e aspettative positive nel futuro. In un certo senso per le medesime ragioni inverse, le aziende, che tanto hanno sofferto per la pandemia e hanno problemi di liquidità e di debito, tenderanno, anch’esse sulla spinta della fiducia, sempre più ad aprirsi per potenziare il proprio capitale. Gli strumenti da lei citati, sono declinazioni del private equity. In molti casi sono strumenti più innovativi e flessibili del private, studiati per consentire agli investitori privati e istituzionali di ottenere rendimenti più elevati. In sostanza mi sembra che siamo alla situazione classica ideale in cui domanda ed offerta possono incontrarsi perfettamente. I settori su cui puntare sono da un lato quelli che seguono il green deal – ricordiamo che il piano dell’Unione europea di raggiungere la neutralità climatica ha una scadenza molto lunga, il 2050 – quelli innovativi, come i tecnologici, e che comprendono i principi ESG (Environmental, Social and Governance), ma anche quelli che hanno preso vigore dopo la pandemia, quale il farmaceutico, oppure quelli tradizionali in cui eccelle il nostro Paese, come l’alimentare o la tecnologia ad alto valore aggiunto.

Si parla di club deal come strumento che possa rappresentare l’evoluzione del private equity, secondo Lei, sarà così?
Il club deal è uno strumento in voga da qualche tempo, ma che sta sempre più diffondendosi per la maturità finanziaria sia da parte dell’investitore che delle aziende target. I club sono molto selettivi. Si tratta di singoli investitori che decidono di unire le loro forze per acquistare quote di partecipazioni o azioni in aziende. Sono molto efficaci perché consentono una grande flessibilità: i soci possono scegliere quanto investire e contribuire alla gestione nei settori in cui hanno competenze o contratti importanti. Inoltre, il momento dell’exit può essere deciso liberamente nel modo  e nel momento migliore in cui uscire. Si tratta di una grande opportunità che responsabilizza molto l’investitore. Non dimentichiamo che i essi nascono a fine del XIX secolo negli Usa per realizzare opere infrastrutturali, tra cui le ferrovie. I vantaggi sono notevoli anche per quanto riguarda l’azienda. Il club deal mette a disposizione dell’azienda una linea di comunicazione diretta rappresentata da un unico management in modo che la proprietà dispone di una conoscenza di tutti i principali soci del club, che come abbiamo visto sono per giunta pochi.

Tra l’offerta limitata delle reti bancarie da proporre agli investitori che viaggiano su rendimenti risicati  e la domanda di capitali delle aziende medio-piccole che vogliano mantenere il controllo sulla governance esiste lo spazio per collocare strumenti alternativi come i club deal? E quali gli altri?
I nostri imprenditori, in particolare quelli rappresentanti di quel mondo di PMI, spesso di proprietà familiare, con al comando la seconda e in alcuni casi la prima generazione, temono interferenze da parte degli investitori esterni nella governance. Come abbiamo detto il club deal consente di superare questa lontananza che ha per esempio il private equity, dove la proprietà non può conoscere direttamente chi sono gli investitori. Per tale insieme di ragioni, ritengo che il club deal sarà sempre più diffuso nei prossimi anni. Tuttavia, per venire alla sua domanda, esiste certamente uno spazio per collocare prodotti che vanno oltre tale strumento. Sulla falsariga di quanto sta avvenendo in altri mercati esteri, sulla base del clima di fiducia e di aspettative di crescita, cui possono essere connesse attese anche d’inflazione che tale quadro può determinare, credo che assisteremo alla messa a punto di prodotti simili al club deal, ma misti o ibridi, fondati anche sul debito, cioè convertibili per esempio in azioni o SPACs.

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