Il difficile rapporto tra Stato, cittadini e imprese. Il labirinto di norme e numeri che genera rassegnazioni. È il tema centrale per ogni società civile, è alla base del rapporto tra cittadino e Stato. È garante della equità e di una sinergia di collaborazioni, tra il singolo e le istituzioni. Si tratta di una parola al centro di mille dispute, il “Fisco”. Lievito della organizzazione sociale ma anche della sua avversione. Apprezzato o detestato il suo ruolo è comunque il baricentro di ogni relazione tra cittadino e la sua Nazione.
Nasce così da queste considerazioni la rubrica mensile: “Il fisco e la legge”, con Paolo de’ Capitani di Vimercate, esperto di eccellenza di questioni finanziarie e giuridiche, socio dello studio legale Uckmar.
Iniquità e condoni
Il nostro sistema tributario è caratterizzato da una serie di trattamenti specifici, esenzioni, esclusioni e salvaguardie ed eccezioni, incentivi e disincentivi tali che senza computer e banche dati nessuno potrebbe più dominarlo. Nonostante ci piaccia pensare il contrario, è così anche all’estero: basti pensare che il codice tributario americano sfiora i 10.000 articoli, senza contare le “regs.” e le guidelines, o l’impatto della giurisprudenza. In parte, è il diretto riflesso dell’articolazione delle nostre società e dello sviluppo dell’economia, che porta il Fisco a dotarsi, e dotarci, di regole sempre più dettagliate, appunto per star dietro a una realtà complessa.
In buona parte, tuttavia, la complessità del “sistema”, e ci risiamo, dipende dal fatto che da molto tempo il Fisco non serve più solo per recuperare risorse, né solo per redistribuire la ricchezza e favorire eguaglianza e mobilità sociale, bensì come leva per lo sviluppo economico o per favorire/sfavorire determinati comportamenti. Del resto, quale miglior strumento del portafoglio per invogliare determinati investimenti o scoraggiarne altri? Il fatto, purtroppo, è che tutte le cause di questo mondo hanno delle buone ragioni alla base, ma l’esito di frammentazione del “sistema” è sotto gli occhi di tutti e viene allora da chiedersi se ne valga davvero la pena: vale la pena distruggere il sistema tributario, annientarne le caratteristiche, appunto, di sistema, per andar dietro a tutte, ma proprio tutte, le buone ragioni del mondo? O non è forse meglio usare altri strumenti, diversi dai tributi, per perseguire scopi extra-tributari? Limitandoci all’IRPEF, è evidente che la platea dei suoi contribuenti sia sempre più ristretta; non parliamo poi degli abitanti degli scaglioni più elevati del prelievo: una tribù di lavoratori (presenti e passati), ché solo questi ormai pagano l’IRPEF, che con il COVID rischia di ridursi ulteriormente.
Ed è così che questi contribuenti con la C maiuscola si sentono da un lato spaesati, e dall’altro con tutto il Paese sulle spalle. Messo da parte il moto d’orgoglio di questa loro condizione privilegiata, d’altronde, osservano i vicini di casa che vivono di rendite finanziarie e immobiliari pagare la metà (della metà) delle loro imposte grazie a cedolari secche e ritenute in banca, professionisti tassati a forfait sino a 65.000 euro, sperando che davvero dichiarino il dovuto, banchieri londinesi arrivare, o tornare, in Italia con aliquote tra il 10 e il 30% delle loro, miliardari che allo stesso modo forfettizzano il prelievo sui redditi esteri con 100.000 euro e chi s’è visto s’è visto. Ultima, e sappiamo già che non lo sarà, il condono. Di quest’ultima versione del Decreto Sostegni si dirà: è una misura estrema, a fronte di carichi di fatto inesigibili, maturati tra il 2000 e il 2010 e mai riscossi, per importi tutto sommato contenuti (5.000 euro, per vero, è il tetto del singolo carico di ruolo, non del debito abbuonato) e a vantaggio di chi dichiari meno di 30.000 euro. Chi di dovere farà ovviamente gli opportuni controlli e, in effetti, ci sono tante persone ridotte in difficoltà e a rischio di marginalizzazione sociale e immersione nel nero, lavorativo e patrimoniale; ma una volta cancellata la partita, chi mai ripescherà il vecchio ruolo abbuonato e lo presenterà a chi non ne avrebbe avuto diritto? E poi, non sarebbe stato meglio ancorare il beneficio all’ISEE, piuttosto che alle dichiarazioni? E se le condizioni di questo abbuono sono di fatto limitate già si sente chi propone al Parlamento un provvedimento di ben più ampia portata, ennesima riedizione di condoni veri e propri che a parte raccogliere un po’ di cassa distruggono la fiducia dei contribuenti onesti e il senso stesso di un sistema tributario, che è quello di ripartire le spese dello Stato secondo la capacità di ognuno; i contribuenti onesti finiscono per sentirsi come il primogenito nella parabola del figliol prodigo. Il sapore è sempre quello: chi ha avuto, ha avuto, chi ha dato, ha dato. E chi non ha dato… Ma per lo meno si dovrebbe fare in modo che darà domani, che si prodighi in futuro. Perché è vero che Gesù disse “Se un tuo fratello pecca sette volte al giorno contro di te e sette volte ti dice “mi pento”, tu gli perdonerai”, ma è anche vero che errare è umano, perseverare…