lunedì, 16 Dicembre, 2024
Considerazioni inattuali

Nuovo dizionario di demerito

 La società del consumismo ci ha insegnato che tutti possono avere tutto quanto sognano di avere, che ogni desiderio può – anzi deve – diventare realtà; malgrado e nonostante tutto. Chiunque può pare infatti il motto indiscusso del trentennio – ma ci si dimentica troppo spesso che “avere” ed “essere” non vadano di pari passo: e non significheranno mai lo stesso. Senza ribadire la scia lungamente percorsa in seguito al saggio To have or to be?  di Erich Fromm e lungi dall’adombrare o annichilire la speranza quasi salvifica che ognuno di noi ha il diritto di conservare nella più difficile delle condizioni o la determinazione e la volontà – che sono doti indubbie – la retorica del sogno prima di tutto e di tutti, oggi più che mai sta portando a galla i suoi relitti.

Quelle grottesche figure nutrite di pane e rabbia che fanno della competizione il loro moto propulsore, che prostituiscono lo spirito e/o il corpo pur di raggiungere l’obiettivo; che confondono l’apparenza con la realtà e le scambiano continuamente come su di una immateriale ed illogica scacchiera. Immateriale come quel ϕαινόμενον (fainòmenon) greco che non può mai trovare riscontro nell’oggettività delle cose e che per natura è solo “ciò che appare” ma si nasconde perché non se ne scopra l’assente sostanza.

 

La mortificazione del talento

Quella mancanza di contenuto del vuoto interiore che ha l’incubo di essere identificato e perciò affossa il pieno ed innalza il mediocre: perché nessuno lo renda mai oggetto di paragone e ne evidenzi il difetto di talento. Ecco qual è forse la conseguenza più grave e più grande di questo forzato indottrinamento allo studio per tutti e di tutti: la mortificazione del talento. Il talento che non si può studiare, apprendere, comprare né ereditare e ipso facto tramandare a fantomatici eredi prescelti a discapito di qualità effettive. Il mantra con i suoi cardini sembrano scriversi in un’autonoma esegesi di un immaginario dizionario del regime: “Se studi, se sgobbi, se paghi, devi arrivare per forza dove sono arrivati i tuoi miti: devi raggiungere il successo.

Non ti serviranno capacità o doti particolari: basta volerlo con tutta la forza, con tutta la rabbia! Sgomitando e senza scrupoli. Chi ha talento fa risaltare il mediocre che si è fatto il mazzo e dunque deve essere eliminato. Il talento è una dote naturale: non l’hai conquistata e dunque non meriti di riuscire. E se hai talento, t’impegni e sei anche preparato non vale lo stesso (anzi è peggio): perché supereresti i tanti, tantissimi che non ce l’hanno ma sgobbano e pretendono ugualmente – e tu sei uno solo, mentre loro sono la moltitudine, la maggioranza.

 

L’avere vuol imporre i suoi canoni all’essere

Se invece ti nutri di rabbia, ti vesti di relazioni, provieni dal poco e soprattutto per tua natura poco puoi realizzare, non potrai mai superare i padroni e dunque verrai premiato: per la tua sola mediocrità e per aver pagato mercificando te stesso.” Queste regole non scritte, tripudio d’ingiustizia mai ammessa e sempre abilmente travestita da retorico buonismo, si rendono emblema di un metro di merito al contrario, o meglio: di demerito. Lo storico assioma alla Robin Hood si spoglia del suo significato spirituale per trasformarsi in un proposito bacato e retto dalla sovrana invidia: “Togliamo ai ricchi (di doti etiche ed estetiche) per dare ai poveri (di contenuto)”.

Ed ecco che il consumismo, o il capitale per dirla con Marx, si appropria in tutto e per tutto anche della vita dello spirito – che l’avere vuol imporre i suoi canoni anche all’essere e trasformare l’apparenza in sostanza: l’astratto in materiale; adottare perciò strumenti materialistici per lo spirito. Porre essere ed avere sulla stessa base dà origine dunque al deterioramento sociale, spirituale che permette a tutti di volere e di voler essere tutto. La società di chi ha e non è, vuole e pretende che tutti abbiano ma non siano, purché sembrino: affinché il sistema si specchi nei suoi individui e li possieda del tutto – e quelli si specchino a loro volta nel sistema-padrone senza invece possederlo realmente: ma solo idealmente; nell’apparenza effimera e vacua che assoggetta, stordisce, manipola e al contempo premia coloro che può controllare – combatte, invidia ed elimina gli indipendenti, i pensanti.

 

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