domenica, 17 Novembre, 2024
Il Cittadino

Riforma della giustizia: «che Dio ci aiuti»

L’impegno più gravoso del governo Draghi – emergenza epidemica a parte – è indubbiamente il capitolo che riguarda la Giustizia.

Il Presidente Draghi nel suo discorso programmatico ha dato ampio risalto al tema, occupandosi sia del settore civile, che di quello penale. E, vivaddio!, anche del nostro sistema carcerario.

Riforma delicatissima, che implica innanzitutto un complicato riequilibrio tra poteri dello Stato.

Nel corso dell’ultimo mezzo secolo il potere giudiziario si è trasformato in una sorta di intangibile clero, con una presunzione assoluta di un primato morale rispetto al resto della società («non esistono innocenti, ma solo colpevoli non ancora scoperti» il noto slogan di uno dei suoi massimi pontefici).

Un potere che in alcuni eclatanti casi ha creato fenomeni più mediatici che giuridici, esaltando la (sacrosanta ed indiscutibile: è e deve essere un caposaldo della nostra civiltà giuridica) autonomia del magistrato, annullando qualsiasi controllo gerarchico e di merito, fino ad anticipare quasi il falso slogan “uno vale uno”.

Un potere ancora tutto da svelare nei suoi riti segreti e nelle sue lotte per l’assegnazione degli incarichi: ed il recente annullamento da parte del Tar Lazio del provvedimento del CSM di nomina del Procuratore della Repubblica di Roma conferma che non tutti i riti “palamariani” (se mi consentite il termine) sono superati, ma anche che la lotta tra magistrati è acerrima.

Quindi, tornando agli obiettivi indicati dal Presidente Draghi, settore civile da riformare per le sue evidenti implicazioni nell’economia: il processo civile, così com’è, non è funzionale all’economia e scoraggia ed allontana gli investitori esteri.

Avrei molte ricette. Ma credo si debba partire dagli uomini. L’avvocatura, almeno nelle sue fasce più colte, ha capito la necessità di un impatto differente e già da tempo offre alle imprese servizi utili e alternative reali alla soluzione giurisdizionale.

Ma deve riuscire ad estendere a tutta la numerosa categoria una cultura più adeguata.

La magistratura è ancora legata dagli schemi procedurali e da un rituale spesso solo formale, che per di più non ha preso atto che il processo telematico è una realtà da almeno un decennio e che quella dilatazione codicistica dei tempi oggi non ha senso. 

La riforma del settore penale è veramente un compito complesso, quasi da “mission impossible”. Me la cavo, quindi, rivolgendo un augurio al Governo, con la espressione finale della formula del giuramento americano: «so help me God» («e che Dio ci aiuti»). Ma, essendo italiano, non posso che ricordare anche il proverbio «aiutati che Dio ti aiuta»: così se si vuole riformare veramente, i problemi nodali del processo penale vanno subito affrontati: la prescrizione innanzitutto, che è la più barbara delle tante barbarie.

Vorrei solamente ricordare un concetto che da questa rubrica ho più volte espresso: i magistrati, p.m. compresi, applicano le leggi che il potere legislativo ha promulgato.

Il sistema carcerario, infine. Che, menzionato nel programma di governo, è subito balzato nelle prime pagine della cronaca, per la morte in carcere di Raffaele Cutolo, da tempo malato, ridotto ad un essere di quaranta chili.

La nostra Costituzione – mi ha fatto riflettere anni fa il Presidente Violante, in occasione delle polemiche per la mancata scarcerazione non ricordo più di quale boss siciliano – contemplando l’ergastolo prevede che si possa morire in carcere.

Giusto. Per quanto per un liberale della mia formazione l’ergastolo è sempre stato incostituzionale; così come reputo incostituzionale il 41-bis. Ricordo nitidamente il giudice Falcone che denunciò come all’Ucciardone i boss di mafia continuavano il loro comando. Ma credo volesse isolarli dal mondo esterno e dall’imperio sugli altri mafiosi, non torturarli.

Non voglio, naturalmente, aprire qui la questione. Ma se sulla morte di Cutolo persino l’ex p.m. Ingroia, non certo un campione di garantismo, ha dichiarato che «il 41-bis in questi casi è accanimento» (Huffington-post) una riflessione prima o poi bisognerà tornare a farla.

Magari ricordando, come ha twittato l’amico Cesare Placanica, già Presidente della Camera Penale di Roma, che la differenza da difendere e vantare consiste nel fatto che «Cutolo era un delinquente. Noi no. Perché abbiamo principi e valori che i delinquenti non hanno e che ripudiano la possibilità di fare morire solo come un cane, in un carcere, un uomo incapace di intendere e volere».

Insomma, ricordare che lo Stato, con civiltà e rispetto della dignità umana, deve punire l’autore del reato, ma non può scendere al suo livello, trasformandosi nel vendicatore delle vittime.

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