Non troppi anni fa, eravamo agli inizi del 2000, il sociologo americano Howard Rheingold si interrogava sulla possibilità che i nostri telefonini diventassero qualcosa di più di semplici strumenti per fare telefonate o inviare messaggini di testo, ma veri e propri “telecomandi di vita”.
Venti anni dopo, gli smartphone sono diventati vera e propria appendice corporea. Con un telefono posso fare praticamente tutto. O quasi. Ma prendiamo il caso più semplice: i social media. Starci è talmente facile e immeditato che in italia, solo in epoca pre-pandemica, si contavano 35 milioni di utenti social, ovvero circa il 60% della popolazione, per un consumo medio di oltre 4 ore al giorno. Che sia Instagram, Facebook, TikTok, Twitter, Twitch o Youtube, quanto serve è un dispositivo come uno smartphone, appunto, e un accesso internet. In aggiunta ai normali contratti traffico dati, entrando in casa degli Italiani, l’Istat ci dice che circa l’80% delle famiglie italiane dispone di un accesso internet, e circa il 75% di connessione a banda larga.
Non basta. Perché, come ci dice l’OCSE nell’ultimo Digital Economy Outlook, l’accelerazione digitale provocata dalla pandemia porta con sé il bisogno di chiudere del tutto i digital divide che rischiano di lasciare alcune persone e aziende indietro. Siamo nel bel mezzo di un reset globale, di una trasformazione radicale in atto che ha pochi precedenti. Probabilmente, un parallelo potrebbe essere azzardato con le implicazioni che la peste nera ebbe agendo come catalista nello sviluppo dell’economia moderna basata sulla produzione di massa e sul potere del consumatore, come qualche storico ha di recente sostenuto.
In altri termini, come ha sottolineato Caroline Freund, Direttore per i Servizi Finanziari, la Competitività e l’Innovazione della Banca Mondiale, “L’immensa sfida di Covid-19 si estende a tutti i settori dell’economia globale, e la risposta ha richiesto flessibilità e innovazione da parte delle imprese del settore privato e dei funzionari del settore pubblico nei paesi in tutto il mondo.”
Il perché è presto detto: “Le tecnologie digitali hanno aiutato le nostre economie e società a evitare un arresto completo durante la crisi COVID-19 e ci hanno permesso di saperne di più sul virus, accelerare la ricerca di un vaccino e monitorare lo sviluppo della pandemia”, ha affermato il vice segretario generale dell’OCSE, Ulrik Vestergaard Knudsen. Aggiungendo che “la crisi ha anche accentuato la nostra dipendenza dalle tecnologie digitali e messo a nudo la realtà dei divari digitali tra e all’interno dei paesi”. Per cui, “Siamo a un punto di svolta nella trasformazione digitale e la forma delle nostre economie e società dopo COVID dipenderà da quanto bene possiamo progredire e ridurre queste divisioni”.
Ecco il punto: il rischio che il distanziamento sociale, che ci viene costantemente richiesto per ridurre le possibilità di contagio in attesa del vaccino, possa diventare nei fatti nuova distanza sociale, nuova povertà. Perché in un futuro in cui lavoro, istruzione, sanità e interazioni sociali dipenderanno sempre più dal digitale, la disparità di accesso rischia di minare alle fondamenta le nostre democrazie.