Avverto tra gli amici, tra i colleghi di lavoro, ma anche tra la gente che incontro nel mio prudente, mascherato e ridotto girovagare, un senso generale di abbattimento.
Certamente influiscono su tale stato d’animo le modificazioni del nostro stile di vita a causa della insistente pandemia da Covid-19, aggravata da una comunicazione scellerata che mi ricorda il monaco medievale che girava per le strade dei paesi, suonando un campanaccio ed urlando un avvilente «ricordati che devi morire», senza incontrare mai un Massimo Troisi che rispondesse «sì, sì, mo’ me lo segno», riaccendendo così la vita.
Credo, però, che non poco influisca sul nostro (anche io ne sono affetto) avvilimento anche la constatazione di trovarci a vivere l’attualità di quella profetica terzina di Dante, «Ahi serva Italia, di dolore ostello, /nave sanza nocchiere in gran tempesta, /non donna di provincie, ma bordello!» (Purgatorio, canto VI, vv. 76-78).
In realtà, ben prima della pandemia da coronavirus, v’è stata un’altra epidemia – più subdola perché non riconoscibile – che ha colpito i politici, spazzandoli via uno dopo l’altro, da destra a sinistra, e sostituendoli con gli attuali politicanti per caso, che rendono del tutto inerme qualche politico miracolosamente sopravvissuto, sperso in questo nulla.
La ricerca del potere per il potere, come fine a se stesso e non come mezzo per conseguire un obiettivo, ha trasmesso, a noi italiani, quella sensazione di un nostro procedere senza scopo e senza una meta.
Una situazione che ha espresso il Prof. Conte, giurista abilissimo a districarsi tra i tira e molla delle varie fazioni che lo sostengono, ma del tutto inidoneo, perché non “politico”, a tracciare una rotta: inevitabile, così, la collisione con un domani che sarà inesorabile.
Non viene data nessuna prospettiva, si naviga a vista in un mare irto di scogli, con la coscienza che prima o poi incapperemo in quello che ci affonderà.
Questa pochezza, questo nulla della (non) politica, si riflette sul nostro vivere sociale, anch’esso sempre meno sociale, meno collettivo, meno solidale.
La divisione in guelfi e ghibellini dei tempi di Dante, è oggi quella meno nobile tra l’impiego tutelato ed il lavoro autonomo, con i suoi milioni di dipendenti allo sbaraglio.
Non so se i provvedimenti dello Stato siano stati quelli giusti. Ripeto quanto già detto in altre occasioni: solamente alla fine si potrà valutare se il sacrificio richiesto all’Italia, senza pari nel mondo occidentale e negli Stati di diritto, sarà valso a qualcosa. Ad oggi ne dubito fortemente. Ma occorre aspettare e rispettare: l’epidemia è ancora potente.
Ma è proprio la mancanza di prospettive che rende più gravosa la situazione e le restrizioni imposte.
Perché, al di là della speranza che stando chiusi potremmo scansare a livello personale l’epidemia, non ci è stato indicato null’altro, ci sono date, a prestito, provvidenze per l’oggi, che dovremo restituire con gli interessi, ipotecando così il futuro.
Colpe diffuse. Colpevoli i sindacati, legati a tradizioni di sola contrapposizione coi datori di lavoro. Colpevolissimi gli imprenditori, incapaci di proporre misure di più lunga gittata e di maggiore impatto sociale. Colpevoli anche noi elettori e cittadini che stiamo partecipando ad un partita tra bari, senza la capacità di smascherare chi ci imbroglia.
Meno colpevoli di tutti, gli abitanti della “terra degli ultimi”, i calabresi ai quali hanno rubato tutto, perfino l’antico nome di Italo, per estenderlo a tutta la penisola.
Una terra – dove anche tra persone che non hanno nulla, se non la loro anima, è radicata una cultura antica e civilissima – umiliata da una povertà non propria, ma indotta dalla sua condizione di colonia e dove ogni tentativo di rivolta civile (il brigantaggio, i moti di Reggio del 1970) sono stati derubricati a fenomeni criminali.
Proprio da qui, dagli “ultimi”, deve partire una prospettiva nuova.
Non un risarcimento che non serve a nulla, ma un programma che coinvolga tutta la Nazione, che sia difficile, duro, irto di ostacoli e sacrifici.
Una prospettiva che eviti all’Italia ciò che è successo alla Calabria: dove un secolo di emigrazione (interclassista: fino agli anni ‘60 quella contadina e proletaria, per fame; poi dei figli della “borghesia” in cerca di migliori occasioni) le ha rubato sangue vivo.
Ma sia il popolo calabrese, forse più avvezzo degli altri («è dura, d’inverno, la vita dei pastori in Aspromonte»), sia quello italiano, sono pronti allo sforzo che serve e ad allontanare i bari dal tavolo: ma solo se gli viene offerta una prospettiva reale.