venerdì, 22 Novembre, 2024
Considerazioni inattuali

La pena che salva

Provare pena per le miserie umane, per la pochezza interiore quando la vediamo nell’altro, non significa condannarla – ma neppure avallarla. Tendiamo sempre a ritenere la pena come un sentimento riconducibile ad una condizione di superiorità rispetto al prossimo, di snobismo. E mi pare invece semplicemente paradossale pensare che una sensazione come la pena si possa in qualsiasi modo identificare con il distacco o l’indifferenza. Al contrario mi sembra altrettanto difficile credere che avvertirla voglia dire partecipare, cum-prehendere, giustificare l’oggetto o meglio il soggetto per cui la sentiamo. Poiché le condizioni capaci di suscitare la pena effettiva, che non è compassione, non sono quasi mai materiali: molto più probabilmente spirituali. Quando la proviamo per qualcuno, in realtà non percepiamo noi stessi in una condizione di superiorità – e però nemmeno di reale empatia con l’altro; ed è forse uno dei rari casi in cui un sentimento può al contempo avvicinarci ed allontanarci. Ne Il testamento di Tito De André cantava: ”Nella pietà che non cede al rancore, madre, ho imparato l’amore”. Questo forse a dimostrazione che la pietas vera e propria, non richieda per forza un’identificazione o una rassomiglianza con l’altro; si può provare pena nonostante la diversità. Non è necessario empatizzare o riconoscersi nel prossimo per capirne lo stato d’animo; eppure la pena s’avvicina molto di più all’amore che all’odio. Ipso facto provare pena non potrebbe trovare una corrispondenza neanche nel disprezzo. Ci sono persone che magari ci fanno un torto gratuito, oppure gioiscono di un nostro insuccesso o invece patiscono per un nostro traguardo – ed è lì, proprio in quelle condizioni ai limiti della gratuità e dell’irragionevolezza che spesso avvertiamo pena e non rabbia come ci si aspetterebbe. Abbiamo pena dunque di chi risulta ridicolo ai nostri occhi per un odio inconsistente verso di noi, per una dimostrazione di gelosia immotivata. Proviamo pena del male che non ci aspettiamo. Incredibilmente infatti sembra che sia il ‘male banale’ a provocare la rabbia, e il male inaspettato a suscitare invece la pena. Il male ridicolo, patetico appunto, stolto: quello che ad un tempo avvicina – poiché non odia – e allontana – perché incomprensibile per chi lo subisce. La considerazione del dolore altrui rappresenta solo una parte di questo male inaspettato. Come pure la pena che sentiamo per qualcosa che non ci riguarda minimamente è solo una componente, o meglio una reminiscenza della pena già provata per qualcuno che ha mosso verso di noi quella parte di male ridicolo, inatteso. Sarebbe possibile allora in questo senso guardare alla pena che proviamo nei confronti dell’altro come ad una cura, ad una soluzione salvifica? Uno stato che salva chi la prova, ma anche – e ci appare quasi inconcepibile – chi ne è oggetto? Che salva ed eleva persino l’oggetto-soggetto di pena che abbiamo sempre ritenuto se ne vergognasse. Ma se chi è oggetto di pena, ne è spiritualmente colpevole – poiché in qualche modo artefice o responsabile, come detto, di un male gratuito ai danni dell’altro – allora non può avere vergogna della pena che gli suscita. Ovvero, chi suscita pena poiché ridicolo nel suo male immotivato verso il prossimo, non possiede un’effettiva capacità oltreché il diritto di vergognarsene proprio perché capace di odiare senza ragione e senza vergogna. Il fulcro di tutto ciò non si esplicita dunque nella vergogna, bensì in quel male gratuito per l’altro del tutto incolpevole che si difende non odiando, ma provando la pena che salva entrambi dalla miseria dello spirito.

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