venerdì, 15 Novembre, 2024
Il Cittadino

I fili di Jemolo

Confesso che poche volte nella vita mi sono sentito smarrito come in questo momento.

Sono frastornato, come forse alcuni (o molti) di voi, dal susseguirsi, dall’altro ieri (venerdì 23 ottobre), di proclami e provvedimenti sempre più restrittivi della libertà da parte dei presidenti delle Regioni.

Una resa al Covid-19 penso tra me e me. Ma non oso dirlo, perché il pensiero dominante cui la società di oggi impone di conformarsi, mi farebbe passare quantomeno per un insensibile, che antepone l’economia alla salute. Se non, peggio ancora, mi farebbe qualificare per un “negazionista”, termine che se riferito all’Olocausto – tragedia storicamente accertata – ha un senso, ma che se usato verso un fenomeno di cui ancora non si è venuti a capo, significa non volere ammettere il dubbio: che certamente è scomodo, ma, come diceva Voltaire, «solo gli imbecilli non lo hanno».

Lo stesso dubitare che la prolungata e rinnovata limitazione della libertà – il frutto del “potere sanitario”, da questa rubrica denunciato già il 22 marzo 2020 – sia costituzionalmente ammissibile e possa essere disposta o aggravata addirittura con atti amministrativi, significa farsi guardare con sospetto. Persino alcuni dei più attenti tra i miei quaranta lettori, amici intelligenti e colti che stimo ancora di più per il dissenso e per il dubbio sulle mie tesi espresso, mi hanno rimproverato di ricercare complicate soluzioni giuridiche mentre la gente muore.

Ritengo che loro siano caduti in ciò che politicamente rifuggono e rifiutano: l’accettazione del discorso “alla pancia” teso ad ingenerare quello stato d’animo che fa accogliere soluzioni drastiche. Quali i “pieni poteri”: che concessi per l’emergenza sanitaria, potranno essere pretesi anche per altre emergenze: l’immigrazione, la mafia, l’ordine pubblico; o per qualsiasi altro pretesto.

È una situazione grave, un precedente pericolosissimo: che chi crede nella democrazia e nello Stato di diritto deve contrastare dal suo manifestarsi.

Mi consola, in un palpabile decadimento sociale ed istituzionale, nell’affermazione di istituti che la mia personalissima sensibilità mi fa avvertire come barbarie, il dialogo sempre aperto con un nutrito numero di intellettuali e giuristi che, come me, dubitano molto prima di accettare.

Mi aggrappo a loro.

Anzi mi aggrappo ai “fili” che anche loro hanno raccolto e rimandano ancora, destinati a chi riesca o voglia vederli.

Sono i “fili” teorizzati da Arturo Carlo Jemolo – Maestro del mio Maestro, Domenico Barillaro, che io ho avuto l’onore e la fortuna di frequentare negli ultimissimi anni della sua vita – in uno dei suoi ultimi articoli su “La Stampa”, credo del 1979.

Diceva il Maestro che anche in tempi bui, come quelli che si vivevano all’epoca, con la perdita di valori che non venivano sostituiti da altri, esisteva pur sempre un filo, un pensiero che resisteva.

Si trattava di quel legame, di quegli insegnamenti, a volte sussurrati, a volte addirittura rubati, che si trasmettevano dal maestro all’allievo, da questi al suo allievo e così via e che, perciò, restavano saldi ed indelebili nella società – anche se in apparenza non emergevano – perché saldi ed indelebili erano nella coscienza di quelle persone che costituivano una teoria di intelligenze che niente e nessuno avrebbe mai potuto interrompere.

Ecco che allora, nei momenti di smarrimento come quello attuale cerco quei fili, che non tutti sono capaci di scorgere, così presuntuoso da avere la pretesa di averli individuati e ad essi mi aggrappo.

Mi rendo conto così della forza dell’intuizione di Jemolo: «…in qualche modo tutto si concatena, ed è difficile sapere se una dottrina avrebbe potuto affermarsi, un indirizzo politico manifestarsi e trovare adepti, se non si fossero dati certi antecedenti…».

Provo anch’io a rilanciare a mia volta quei fili, sapendo di essere solo un tramite per la trasmissione di un’idea che arriva a me da lontano.

Idea di libertà e democrazia.

Di essere “cittadino”, insomma. Anche ai tempi del coronavirus.

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