È notte. Una di quelle fitte e scure, in cui le stelle sembrano più vicine, presenti e pronte all’appello che faccio alle poche cose che risaltano investite dalla luce di un solo lampione che emerge dall’asfalto.
Una crosta di muro e il grappolo lilla di un glicine che guarda per terra, più sicuro di me nella ricerca dei punti cardinali, sono i due elementi che mi fanno compagnia in queste ore notturne. La mia scrivania è la risultanza di un legno robusto, ma sempre più crinato dal peso della cronaca che ogni giorno ci ricorda che la morte mai si dimentica di riscuotere i suoi tributi. Nonostante i conti con il destino, mio e degli altri, che mai tornano e, barando sulle somme, non mi permettono di pensare ad un disegno equo della sorte, la luna rischiara le foglie più offerte alla vista del pioppo all’inizio del viale. Il buio sembra padrone stanotte, lasciandomi poche cose da guardare, eppure in questo modo mi usa una cortesia. Perché quando sono pochi gli elementi, si ha più tempo per dare loro il giusto nome. È l’albero il mio vero maestro, perché, nonostante la notte, lui si staglia prepotentemente verde sulle ombre indistinte dei palazzi intorno. Così la scelta di una sola parola per descrivere quel colore che rivendica attenzione, con la sua forza cromatica, impegna tutta la mia riflessione. È verde forse perché l’autunno non gli ha ancora sottratto tutto, o forse lo è perché i tuoni di questa notte lo hanno risparmiato, o forse lo è perché le motoseghe che ho sentito vicino, nei mesi passati, non hanno infierito con le lame sul suo tronco, o forse lo è perché è forte e ormai ben radicato. Qualunque sia lo scampato pericolo, è così verde perché è ancora vivo. E qual è l’ultima cosa che resiste e vive, bastante a se stessa, al di là delle previsioni infauste, al di là del tempo che ci è dato, al di là degli esiti e dei conti che non tornano mai? cosa è connaturato più di tutto alla vita? di cosa ha bisogno la vita stessa, in quanto tale, per spingersi avanti? La speranza. Ecco la parola adatta a questo verde, una parola antichissima, come la sua origine, che non rivela completamente il suo significato, perché non porta in seno il concetto di un’azione concreta. La speranza si presenta come un sentimento esposto, perché si sporge dal davanzale delle azioni e degli eventi, senza essere sostenuta verticalmente dalle loro braccia. La speranza è un misterioso al di sopra dei fatti, che anima dall’interno qualunque forma si definisca vivente. È l’essenza del rapporto stesso con l’esistenza. E l’ultima ad arrendersi prima che la notte cada su ogni nome.
Ed è arrivando al nome, al significato che ogni nome rimanda, che comprendo l’importanza di avercelo un proprio nome e l’altrettanto primaria sapienza di saperlo attribuire. Avere un nome vuol dire essere riconosciuto nel proprio diritto e nella piena dignità di esistere. Chiamare qualcuno col suo nome significa riconoscergli altrettanta dignità, altrettanto diritto, significa, ancora di più, abbracciare la sua individualità, unica, irripetibile, come ogni storia. Anche la più nera, anche la più sporca, anche la più persa delle storie ha dentro un protagonista che la natura, con tutta la sua potenza, non potrà più replicare in modo identico. Allora occorre un nome, non per mescolare a forza tutte le esistenze nello stesso magma di sostanza umana e dire che siamo tutti uguali. Potremmo essere tutti uguali, ma ogni vita incontra infiniti bivi e compie infinite scelte, alcune volontarie, altre indotte da sorte, caos, bramosia e resistenza. Occorre un nome per distinguere, per discernere, per attuare il riconoscimento profondo di un’altra natura umana. Occorre il nome per onorare l’irreplicabilità di ogni singola persona.
Lo stesso principio vale per ogni cosa. Vale per i sentimenti, per gli strumenti che utilizziamo, per le differenti realtà con cui veniamo a contatto. Ancor di più, dare il giusto nome, usare la giusta parola per tutto ciò che vediamo, sentiamo, proviamo, è necessario. Attribuire la parola propria ad ogni cosa è un atto di fedeltà e riconoscimento del valore e del significato di ogni cosa. Ogni sentimento ha un nome preciso, che ne racconta la sostanza e confonderli vuol dire distruggerne il senso stesso, porta quasi senza accorgersene a pervertire il valore della nostra capacità di sentire. Uso la parola pervertire nella sua accezione di deviare, di snaturare, di cancellare. È importante reimparare, tutti quanti, a usare le parole, a dare il giusto nome a tutto ciò che percepiamo, a tutto ciò che facciamo. Perché la natura profonda di una qualsiasi emozione, di qualsiasi azione non si dimentica di se stessa, emerge sempre e sempre vince. Se usiamo le parole in modo sbagliato, in una maniera che non tiene fede al contenuto, finiamo per trovarci tra le mani realtà distanti dal nome che abbiamo loro dato o, peggio, veniamo costretti dentro realtà che ci vengono presentate con un nome diverso da quello che effettivamente troviamo al loro interno.
È importante saper nominare bene le cose: attraverso le parole si definisce, si riconosce, si sceglie, si educa, si vive. E se la nostra società lamenta un crescente svuotamento di significato, guardando bene tra le sue pieghe troviamo sempre un tradimento nella definizione dei valori. La paura diviene bontà, la viltà disciplina, la coabitazione relazione, il temporeggiare pazienza, la sopravvivenza vita. Recuperare le parole giuste per raccontare quello che accade è l’unico modo che abbiamo per difenderne il significato e il suo contenuto. E’ un atto di fedeltà ad una profondità, ad una coerenza che sono fondative della realtà. Ed è un atto dovuto. Perché la parola ha un potere creativo da usare con prudenza e rispetto. Bisogna essere disposti a pagare il prezzo della rinuncia alle comode semplificazioni che rendono uguale tutto ciò che uguale non è, perché ogni cosa riacquisti il suo giusto posto sotto il cielo e nella nostra stessa vita. La natura umana è relazionale, affermano, unanimi, le scienze. Ma per poter essere relazionale, ha bisogno di una narrazione, non è mai deduttiva, attende ed esige parole. Ed esige parole precise, conformi al vero, altrimenti, semplicemente, la relazione, l’incontro non si realizzano, avviene il contrario: si impastano equivoci che cementano distanze ed isolamento. E certo la scusa di stoffa data dalla mascherina non sarà sufficiente a nascondere la nostra responsabilità. Guardiamo bene dentro le parole che scegliamo. Questo è il patrimonio da difendere e recuperare, per noi, per i nostri figli. Se continueremo a bruciare il valore delle parole, saranno presto finiti i ponti per incontrare davvero l’altro, e, alla fine, anche per fare la conoscenza di noi stessi. Proteggere la parola significa proteggere l’identità, nostra e dei legami che costruiamo. Come ti chiami tu?