Ogni personaggio politico, prima o poi, diventa prigioniero di un cliché: una maschera che lo identifica non con il suo ruolo ma con il modo con cui lo interpreta, come se fosse un attore di sé stesso. Una volta creata questa identità aggiuntiva, il politico viene facilmente classificato, diventa prevedibile, abitua i suoi seguaci ad aspettarsi da lui comportamenti ripetitivi e tranquillizzanti e stimola i suoi avversari ad affilare le armi adatte per colpirlo dove è prevedibilmente più esposto.
Nulla di tutto questo si può dire, finora, del Presidente del Consiglio. Giuseppe Conte è difficilmente riconducibile ad un modello statico.
Quando fu chiamato a guidare il Governo giallo-verde si ritagliò il ruolo di notaio della strana coppia Di Maio-Salvini. In secondo piano rispetto al protagonismo dei due suoi rampanti vicepresidenti, Conte sembrava starsene buono, senza avventurarsi in mediazioni ardite tra i due partiti che lo sostenevano. Giocava in silenzio il suo ruolo evitando di irritare sia il partito che lo aveva indicato a Mattarella sia quello che con spavalderia e prepotenza riusciva ad imporgli anche scelte che, probabilmente, non condivideva.
L’immagine di un Conte pacato e desideroso di evitare anche la pur minima frizione non ne faceva un personaggio di grande presa sull’opinione pubblica. Ma il suo aplomb gentile, elegante e istituzionale lo facevano percepire come una persona che stava nei suoi panni, non essendo un navigato della politica ma solo un professionista prestato alle istituzioni.
Questa maschera cadde all’improvviso il 20 agosto dello scorso anno quando Conte al Senato, picchiettando ogni tanto sulla spalla di Salvini, sfoderò il pugno di ferro che stava nel guanto di velluto e inscenò la più clamorosa requisitoria che mai un Presidente del Consiglio aveva fatto nei confronti del suo vice, praticamente liquidando Salvini e assumendosi lui la responsabilità di aprire la crisi di Governo.
Nessuno si aspettava che il compassato avvocato fosse capace di brandire la scimitarra con tanto ardore.
Durante il parto rapido, ma non per questo meno faticoso, del suo secondo Governo, Conte scelse il ruolo di paziente mediatore tra Pd e 5 Stelle e riuscì ad evitare trappole nascoste che avrebbero potuto riconsegnare il Governo al tandem Di Maio-Salvini.
I primi mesi del governo giallo-rosso Conte li trascorse tentando di tenere a bada le pressioni di una parte del Pd che voleva far rimangiare subito ai 5 Stelle alcune scelte fatte sotto le pressioni di Salvini. Si dedicò a costruirsi un abito internazionale più credibile, soprattutto in Europa e, a differenza del suo primo Governo, si propose come ago della bilancia, capace di esercitare mediazioni, evitando che la guerriglia di Renzi potesse far saltare la maggioranza nata da appena pochi mesi.
Poi è arrivata la pandemia e Conte ha avuto la scena tutta per sé. È diventato, gioco forza, il protagonista unico della lotta contro il nemico invisibile. Con qualche errore di comunicazione e sovraesposizione, si è imposto come punto di riferimento di un’Italia angosciata e bisognosa di trovare un’ancora rassicurante. C’è riuscito con il suo stile pacato, con un buon controllo dell’emotività, un eloquio fluido, ritmato senza esagerazioni ansiogene e con l’uso di un lessico prudente e rassicurante. Ha conquistato la fiducia di quasi il 70% degli italiani, come diceva una vecchia pubblicità, con la forza dei nervi distesi. Nel frattempo si è proposto come tenace e inflessibile negoziatore con un’Europa inizialmente riluttante e incapace di cogliere la drammaticità della crisi che aveva investito l’Italia come un devastante uragano.
Dopo il giro di boa della riapertura, a metà maggio, Conte si è proposto come colui che riusciva ad ottenere dai partner europei qualcosa di impensabile: un aiuto straordinario pari a 209 miliardi. Forte di questo successo, Conte ha cominciato a convincersi di essere uno statista in erba, che era passato dalla subalternità a personaggi come Di Maio e Salvini alla capacità di sedersi alla pari con Merkel e Macron e di mettere fuori gioco l’asse dei Paesi egoisti che all’Italia non avrebbero voluto dare neanche un euro bucato.
Dopo le vacanze Conte ha evitato di infrangersi su due scogli pericolosi, referendum ed elezioni regionali, non esponendosi mai ed aspettando di vedere come andava a finire. È finita bene, soprattutto per il Pd che ha perso una sola Regione. E lui ha capito due cose: la sua maggioranza è diventata senza alternative e lui deve dare maggior ascolto al Pd. La debolezza dei 5 Stelle lo ha convinto di poter osare di più e di ricambiare Zingaretti per la fiducia che gli ha sempre accordato con un maggiore interventismo sui temi ai quali il Pd, per mesi, aveva messo la sordina.
Ed ecco ora il nuovo Conte, vincitore in Europa, più sicuro di sé in Italia, convinto di aver preso dimestichezza con le regole contorte della politica italiana e capace di dire la sua, senza paura, con forza e autorevolezza,
Ora però non ha più alibi: deve giocare la sua partita sapendo che ogni errore ricadrà sulle sue spalle, ogni incertezza gli sarà imputata come imperdonabile tentennamento, ogni ambiguità sarà percepita come incapacità di decidere.
Conte si gioca ora le sue carte. Le regole della vecchia politica sono fatte di mediazioni interminabili, rinvii, mancanza di decisionismo. Le violi tutte queste regole se vuol evitare le sabbie mobili del non-governo. Le vicende hanno giocato a suo favore ma non può sedersi sugli allori. Con umiltà e tenacia faccia il tessitore di questa Italia che ha un’occasione unica per rinascere più forte. E se sarà necessario alzare la voce non esiti a farlo. Ma non ecceda in protagonismo sterile. Gli Italiani da lui si aspettano risultati concreti e lo apprezzeranno se sarà capace di scelte coraggiose. Deponga la toga di “avvocato del popolo”: non interessa più a nessuno. Ascolti di più e decida, presto e bene.