Caro Maestro Sperelli, mi raccontava un amico magistrato di come questa storia dello smart working abbia causato un’ulteriore spaccatura tra una minoranza che prima in ufficio lavorava e che in remoto, viste le difficoltà legate al digital divide, adesso lavora il doppio per garantire il mantenimento dei medesimi standard. Al contrario, coloro che già prima in ufficio non brillavano per produttività, il telelavoro ha aiutato a imboscarsi meglio.
Strano Paese l’Italia, Maestro. Baciato dalla fortuna eppure intimamente disprezzato dai suoi figli sedicenti patrioti. Il Paese dove l’eccezione si fa regola, quello della doppia morale, il Paese del salvo intese, quello in cui l’uno che vale uno per sottrazione aritmetica diventa quello del mandato zero; il Paese dove esiste (apparentemente) una correlazione negativa tra numero di parlamentari eletti ed efficienza legislativa, il Paese dove tutti si stringono al Billionaire, ma a coorte neanche a parlarne perfino in un tempo in cui la cui lezione universale sarebbe quella di guardare insieme dalla stessa parte e nel lungo periodo.
L’italiano no, si gira dall’altra parte caro Maestro e mai per indifferenza perché nell’intimo dell’eterna lotta tra uomini e caporali tradisce spesso la tendenza a sentirsi più furbo dell’altro, onde poi riscoprirsi un povero fesso, perché uno più furbo di lui alla fine lo trova sempre. Non trovi? Lo aveva fotografato bene Sordi nei suoi film, l’italiano. Avrebbe poi ammesso Gaber: “Io non mi sento italiano, ma per fortuna o purtroppo lo sono”.
Erano altri tempi quelli del tuo “Io speriamo che me la cavo” e di quella scuola che quanta tenerezza, poesia e speranza ispirava. Mi chiedo cosa penseresti oggi in tempi in cui l’abbandono scolastico non è quello degli studenti in miseria, ma quello della miseria dei nostri colleghi.
Hai letto? Gli insegnanti chiedono di essere esonerati dal ritorno in classe. Hanno paura. E’ umano. Io capisco, ma dovrebbe esserci qualcosa di più, il senso di una missione. Immaginiamo per un attimo un medico chiedere l’esonero nel bel mezzo di una pandemia. Nessuno vuole fare la morale, sia ben inteso, e poi tu lo sai che io ho un conflitto di interessi enorme nel dire questo essendo tuo discepolo nonchè accasato con un medico, entrambi peraltro emigrati per le ragioni di cui sopra.
È che il rammarico, caro Maestro, viene dal fatto che dire scuola dovrebbe dire, nel breve termine, consentire ai genitori di lavorare e quindi all’economia di continuare a girare e, nel lungo, porre le basi per il Paese che verrà.
Dire scuola, ci hai insegnato, significa gettare le basi per sconfiggere quella arretratezza culturale che è ancora il male invisibile che affligge le aree più arretrate del Paese, penso alla Questione Meridionale per dirne una; dire scuola significa poter riunire famiglie; dire scuola significa porre le basi per creare una nuova generazione libera di scegliere, il cardine di ogni società liberale e libera da dittatori e da demagogie; dire scuola significa offrire al figlio dell’operaio dell’Ilva una scelta diversa da quella tra malattia e lavoro; dire scuola vuole dire perciò dire libertà dalla povertà, spirituale e materiale.
Dire scuola vuol dire, infatti, gettare le basi per una vera mobilità sociale e una reale giustizia sociale con gli anticorpi necessari a reggere gli urti imprevisti; dire scuola vuol dire cosa ci sarà nella testa dei tuoi figli, dei nostri figli, come penseranno e quindi come si comporteranno; dire scuola vuol dire quindi porre le basi per una migliore qualità della vita. Per dei migliori noi. Tutto il resto, purtroppo, è solo l’immagine di una vecchia sQuola, sgarrupata.