Le vicende di Lambert, di dj Fabo e di chi li ha preceduti, fanno sorgere una domanda: perché la nostra società non riesce più ad accettare la morte?
I progressi scientifici, fortunatamente, hanno determinato un notevole prolungamento della vita, permettendoci di sopravvivere anche in situazioni che in passato si sarebbero, senza dubbio, rivelate fatali. Ma, ci sono dei casi in cui dovremmo accettare di morire. Invece, è diffuso un atteggiamento di arroganza per cui l’uomo pretende di prevaricare la natura manipolando la morte. Il risultato è un prolungamento innaturale e, talvolta, disumano della vita.
Probabilmente la cultura cattolica in cui siamo cresciuti non ci permette di accettare che si possa mettere fine ad una vita, ovviamente in specifiche e ben determinate situazioni. Il concetto della sacralità della vita, della sua intangibilità e della protezione ad ogni costo non permette di sviluppare un’etica, per così dire, “neutra”, sganciata dai dettami religiosi, ma realmente attenta alle esigenze fisiche e spirituali dell’uomo. Sacralità della vita dovrebbe significare, da un punto di vista laico, rispetto di ogni uomo, come afferma Pulitanò; sul piano giuridico si traduce nel divieto di ledere o di uccidere l’altro.
La sacralità della vita implica che in gioco ci sia una Vita: non solo una vita biologicamente intesa (necessaria) ma un quid pluris che Pulitanò descrive come la ricerca del suo senso umano. Lungi dal voler affermare che vi sono vite che non meritano di essere vissute, l’intento è di riflettere sul concetto personale di dignità della vita; talmente personale che non si può biasimare la scelta di un individuo il quale, in condizioni terminali o di sofferenza estrema, del corpo e dell’anima, decida di morire piuttosto che (non) vivere sapendo di aver perso definitivamente ogni libertà.
Fermo restando il principio per cui la vita va rigorosamente tutelata in quanto bene fondamentale, ontologicamente precedente rispetto a tutti gli altri beni, bisogna riconoscere che, in situazioni estreme ed eccezionali (quali, appunto, patologie con decorso fatale), prevale un diritto, definito dalla dottrina, “infelice“: cioè il diritto ad una morte dignitosa. Eppure, oggi, molte sono le voci contrarie all’eutanasia. Come se vivere non fosse più un diritto ma un dovere.