Viviamo in un mondo che ci spinge costantemente a fare di più, a raggiungere sempre nuovi traguardi, a migliorare continuamente. Siamo abituati a pensare che il nostro valore dipenda dal successo, dal riconoscimento esterno, dalla nostra capacità di fare sempre di più. Ma c’è un paradosso che emerge in questa incessante corsa: quando finalmente otteniamo ciò che desideriamo, sentiamo che non è mai abbastanza. Questo circolo vizioso di insoddisfazione ci accompagna in molte delle nostre giornate e si insinua nelle pieghe della nostra vita, facendo sembrare che la felicità e la realizzazione siano sempre a portata di mano, ma mai veramente raggiungibili. Si tratta di un fenomeno profondo, che non è solo frutto dell’ambizione, ma di una vera e propria insoddisfazione cronica. Una condizione che, nonostante i successi, ci fa sentire sempre “inadeguati”, sempre alla ricerca di qualcosa che ci sfugge. Ma da dove nasce questa sensazione di mancanza, e come possiamo uscirne?
Il meccanismo dell’insoddisfazione cronica è semplice, ma insidioso. Si manifesta nel momento in cui raggiungiamo un obiettivo, un traguardo che pensavamo fosse la chiave della nostra felicità. All’inizio, proviamo un senso di soddisfazione, ma dura poco. È come se qualcosa al nostro interno ci dicesse che non è abbastanza, che c’è sempre di più da fare, da ottenere, da migliorare. La mente, che prima si concentrava sull’obiettivo, trova subito un nuovo desiderio, una nuova meta da inseguire. È come un ciclo infinito di desideri che si susseguono l’uno dopo l’altro, senza mai fermarsi. E così, anche quando tutto sembra andare per il meglio, quella sensazione di vuoto resta, come se non fossimo mai veramente soddisfatti di noi stessi o della nostra vita.
Questa insoddisfazione non è casuale, ma ha radici che affondano profondamente nelle nostre esperienze di vita. Spesso, si sviluppa fin da piccoli, quando impariamo che il nostro valore dipende dai risultati che otteniamo. Nelle famiglie dove l’amore e il riconoscimento arrivano solo se “fai bene”, crescere con l’idea che il valore personale sia legato alla prestazione diventa una seconda natura. Il messaggio che riceviamo, spesso senza volerlo, è che valiamo solo per ciò che facciamo, non per ciò che siamo. E questo schema si ripercuote nel tempo, diventando una trappola che ci impedisce di riconoscere il nostro valore intrinseco, indipendentemente dai successi o dai fallimenti. Quando il nostro valore è legato solo ai risultati, ogni traguardo raggiunto perde presto significato, perché la mente troverà sempre un altro motivo per sentirsi “indietro”, per spingerci a fare di più.
Un altro fattore che alimenta questa insoddisfazione cronica è l’impatto dei social media. Viviamo in un’epoca in cui le vite degli altri vengono mostrate costantemente attraverso lenti perfette e ritoccate. Successi, viaggi, felicità apparentemente senza fine: tutto ciò che vediamo sui social contribuisce a sollevare l’asticella delle aspettative. Non solo ci confrontiamo con gli altri, ma anche con una versione idealizzata e spesso irraggiungibile della vita altrui. Ciò che prima ci sembrava un traguardo ragionevole, ora sembra insignificante, perché vediamo gli altri fare sempre di più, sempre meglio. In questo contesto, la nostra insoddisfazione cresce, perché ci sentiamo costantemente in ritardo rispetto a un’immagine di perfezione che non è mai abbastanza. Il traguardo che inseguivamo si sposta sempre più lontano, diventando un miraggio che ci sfugge ogni volta che ci avviciniamo.
Ma affrontare l’insoddisfazione cronica non significa smettere di crescere o di cercare di migliorarsi. Non vuol dire rinunciare alle proprie ambizioni, ma piuttosto smettere di inseguire l’approvazione esterna come misura del nostro valore. Non si tratta di “accontentarsi”, ma di imparare a riconnettersi con ciò che ci nutre davvero, di imparare a vivere per noi stessi e non per ciò che gli altri si aspettano da noi. Significa abbracciare una visione più profonda e sana di noi stessi, che non dipende solo dai successi o dai fallimenti, ma che affonda le radici nella consapevolezza e nell’accettazione di chi siamo, con le nostre imperfezioni e le nostre fragilità.
Percorsi terapeutici come la Schema Therapy e la Compassion Focused Therapy possono aiutare a uscire da questo circolo vizioso di insoddisfazione. Questi approcci, infatti, aiutano a ridurre l’autocritica e a sviluppare una visione più equilibrata e amorevole di sé. Ci insegnano a costruire un senso di valore stabile, che non dipenda esclusivamente dal riconoscimento degli altri o dai risultati esterni. La vera conquista, quindi, non è un nuovo obiettivo raggiunto, ma la capacità di guardarsi allo specchio e dirsi, con gentilezza e compassione: “Oggi, così come sono, vado bene anch’io”. È questo il primo passo verso una vita più serena, dove l’insoddisfazione non ci definisce più, ma ci permette di vivere appieno il presente, apprezzando ciò che abbiamo senza cercare sempre “oltre”.
In conclusione, la nostra società ci spinge a cercare sempre di più, ma spesso dimentica di insegnarci a fermarci, a fare una pausa, a riconoscere che a volte basta restare dove siamo per accorgerci che ciò che cercavamo era già lì, dentro di noi. L’insoddisfazione cronica, infatti, non è solo un effetto collaterale del nostro modo di vivere, ma una trappola in cui finiamo per cadere quando smettiamo di riconoscere il nostro valore intrinseco. La vera liberazione arriva quando impariamo ad accettarci, a vederci con occhi più gentili, a essere abbastanza per noi stessi, così come siamo.



