Fra non molto ci saranno più mascherine che meduse. L’immagine, forte, è più che una pennellata per descrivere uno degli effetti collaterali della crisi scatenata dalla pandemia. A suggestionarci è stato qualche giorno fa un articolo del Guardian riportando l’esperienza dei sub di Opération Mer Propre, organizzazione francese senza scopo di lucro impegnata nella salvaguardia dei mari.
Joffrey Peltier, uno dei suoi attivisti, ha infatti raccontato di dozzine di guanti, maschere e bottiglie di disinfettante per le mani sotto le onde del Mediterraneo. A parole sue: “È la promessa dell’inquinamento a venire se non viene fatto nulla”.
Infatti, sapendo che sono stati ordinati oltre 2 miliardi di maschere usa e getta, presto potrebbero esserci più maschere che meduse nelle acque del Mediterraneo, il monito. Alla luce del fatto che ciascuna mascherina ha una durata di 450 anni, occorre collaborare per risolvere il problema, suggerisce un altro attivista degli oceani, tale Laurent Lombard, il quale sottolinea come sia “responsabilità di tutti evitare questo nuovo inquinamento, classe politica inclusa”.
E qui viene il punto decisivo di questa storia. Se è vero che a partire dai primi anni 2000 il dibattito sulla globalizzazione ha subito una forte accelerazione con ampi e approfonditi studi su come creare un mondo a misura d’uomo, un dato emerge con forza più di altri dalla discussione. Ovvero, la pandemia da Covid-19 ha definitivamente messo fuorigioco le tentazioni autartiche di molti Paesi nel risolvere questa come altre problematiche che richiedono invece una governance collettiva, per evitare di fare la fine dei Rapa Nui.
Croce e delizia, per questo motivo si può e si deve continuare a evolvere il discorso sulla globalizzazione come mezzo per la costruzione di un futuro migliore perché se è vero che il passato appunto è passato e nel frattempo il mondo è cambiato, il futuro resta invece tutto da costruire. La nobile arte della politica deve partire da qui per disegnare il mondo delle prossime generazioni alla luce delle eredità lasciate dalla nostra generazione.
La sfida quindi non può essere guardare indietro per andare avanti nell’improbabile tentativo di rianimare il passato a fronte di illusorie quanto rassicuranti promesse elettorali. Peraltro, il limite del si stava meglio quando si stava peggio sta nel fatto che le condizioni di oggi non sono quelle di allora, e ammesso e non concesso che quelle ricette siano state di una qualche efficacia, andavano bene allora in quelle specifiche condizioni di gioco che non possono essere ricreate in laboratorio né per decreto. In altri termini, il presente ha di certo le sue radici nel passato, che non sono le soluzioni per il futuro.
La sfida quindi è piuttosto quella di mettersi nelle condizioni di fare meglio dei nostri padri per evitare di autodistruggerci, di sperimentare soluzioni che siano innovative e comuni. Perciò più che di un hype, di un tweet, di un post, di uno scatto da centometrista occorre essere da subito consapevoli che siamo nel mezzo di una ultra maratona e che servono fiato, resilienza, approfondimento, immaginazione e coordinamento su scala globale per tagliare il traguardo, insieme.