Rodrigo Duterte, ex presidente delle Filippine, è stato formalmente incriminato dalla Corte Penale Internazionale (CPI) per crimini contro l’umanità. L’accusa riguarda decine di omicidi avvenuti tra il 2011 e il 2019, durante la controversa campagna antidroga che ha segnato il suo mandato presidenziale e, prima ancora, la sua lunga gestione come sindaco di Davao City. Secondo l’atto d’accusa, Duterte avrebbe avuto un ruolo diretto e sistematico in almeno 76 esecuzioni extragiudiziali, molte delle quali condotte da milizie civili e sicari legati alle forze di polizia. Le vittime, spesso sospettate di traffico o consumo di stupefacenti, sarebbero state eliminate senza processo, in operazioni di “bonifica” urbana che hanno suscitato indignazione a livello internazionale. L’ex presidente, oggi ottantenne, è detenuto all’Aia in attesa di processo. Il suo arresto, avvenuto lo scorso marzo a Manila, è stato definito “storico”: è il primo leader non africano ad essere preso in custodia dalla CPI per crimini commessi durante un mandato democraticamente eletto. Tuttavia, la sua difesa ha sollevato dubbi sull’idoneità fisica e mentale dell’imputato, citando un presunto deterioramento cognitivo che potrebbe compromettere la regolarità del procedimento. La reazione di Duterte e dei suoi sostenitori è stata immediata: l’ex presidente ha definito le accuse “politicamente motivate”, mentre la vicepresidente in carica, sua figlia Sara Duterte, ha denunciato una “strumentalizzazione giudiziaria” orchestrata dal presidente Ferdinand Marcos Jr., con cui è in aperto conflitto. Il caso solleva interrogativi cruciali sul confine tra sicurezza e diritti umani, e potrebbe costituire un precedente importante per la giustizia internazionale. Mentre la CPI prepara le prossime udienze, il mondo osserva con attenzione l’evolversi di una vicenda che mette a nudo le ferite profonde della democrazia filippina.
