A quarantotto anni dalla morte di Steve Biko, icona della lotta contro l’apartheid, il Sudafrica riapre ufficialmente l’inchiesta sul suo decesso. Lo ha annunciato l’Autorità nazionale di pubblica accusa (NPA), con il sostegno del Ministero della Giustizia e della famiglia Biko. L’udienza di iscrizione formale si è tenuta il 12 settembre, anniversario della sua morte, in un clima di forte emozione e attesa. Biko, fondatore del Black Consciousness Movement, fu arrestato il 18 agosto 1977 nei pressi di Grahamstown per aver violato restrizioni imposte dal regime. Durante la detenzione nella stazione di polizia di Walmer, a Port Elizabeth, fu torturato, incatenato e tenuto nudo in cella. Trasferito in condizioni critiche a Pretoria, morì il giorno seguente per una grave emorragia cerebrale. All’epoca, la versione ufficiale parlava di una “caduta accidentale” durante una colluttazione. Nessun agente fu mai processato. Solo nel 1997, cinque ufficiali della polizia chiesero l’amnistia alla Commissione per la Verità e la Riconciliazione, ammettendo di aver falsificato le testimonianze. La richiesta fu respinta, ma non seguirono procedimenti penali. La nuova indagine punta a riesaminare prove inedite e testimonianze archiviate, per stabilire se la morte di Biko sia stata causata da atti o omissioni penalmente rilevanti. “Non si tratta solo di fare luce su un crimine, ma di onorare la memoria di chi ha sacrificato la propria vita per la libertà,” ha dichiarato la ministra Mmamoloko Kubayi. Il caso Biko, simbolo della brutalità del regime segregazionista, torna così al centro del dibattito nazionale. Per molti sudafricani, la riapertura dell’inchiesta è un atto di giustizia tardiva, ma necessaria. E per il mondo intero, un richiamo potente alla responsabilità storica.
