È uno dei più grandi scandali ambientali degli ultimi anni. Le autorità sudafricane hanno formalmente accusato sei persone, tra cui l’ottantaquattrenne John Hume, ex proprietario della più vasta riserva privata di rinoceronti al mondo, per un traffico illegale che coinvolge ben 964 corni di rinoceronte. L’indagine, avviata nel 2017 e condotta dall’unità speciale Hawks, ha svelato un sistema di permessi fraudolenti utilizzati per esportare corni verso il mercato nero asiatico. I sospettati avrebbero richiesto autorizzazioni per il commercio interno, aggirando le leggi internazionali che vietano l’esportazione. Le accuse spaziano dalla frode al riciclaggio di denaro, fino alla violazione della legge sulla biodiversità. Il valore di questi corni, composti di cheratina, può superare i 60.000 dollari al chilo sul mercato nero. Un business che alimenta il bracconaggio e mette a rischio una specie già decimata: nel solo 2024, 420 rinoceronti sono stati uccisi in Sudafrica. Hume, da anni sostenitore della legalizzazione del commercio internazionale dei corni come misura di conservazione, ha dichiarato in passato: “Il corno di un rinoceronte morto vale più di uno vivo”. Ma le ONG e la comunità scientifica restano contrarie, temendo che la legalizzazione possa incentivare ulteriormente la caccia. Nel frattempo, il Sudafrica sperimenta nuove tecnologie per contrastare il traffico: il progetto Rhisotope prevede l’iniezione di isotopi radioattivi nei corni, rendendoli rilevabili ai controlli doganali. Il processo giudiziario è atteso per dicembre. Ma il caso solleva interrogativi più ampi: può la conservazione convivere con il profitto? E quanto costa davvero proteggere una specie sull’orlo dell’estinzione?
