domenica, 22 Dicembre, 2024
Lavoro

Lo smart working è una risorsa solo se regolamentato

Lo smart working sembra arrivato in Italia solo in seguito all’emergenza sanitaria che ha costretto tutti a cercare soluzioni alternative per non mettere a repentaglio la propria produttività. 

Da quando il lavoro agile si è imposto, tanti dipendenti e datori di lavoro ne hanno potuto apprezzare le potenzialità, già note in altri Paesi e, seppure l’ordinamento italiano lo disciplini, per rendere efficiente questo modello lavorativo c’è ancora tanto da fare.

Rispetto alla fine del 2019, la situazione è notevolmente cambiata: da una indagine sullo smart working promossa dalla Cgil e dalla Fondazione Di Vittorio, durante il lockdown circa 8 milioni di italiani hanno lavorato da casa o comunque da remoto e, come spiega la ministra della PA Fabiana Dadone, in seguito al DPCM del 12 marzo 2020, “le amministrazioni centrali hanno un livello molto alto, intorno all’80%, di persone collocate in smart working, i dati di tutte le Regioni si attestano al 69%”.

L’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano riconosce che già prima della pandemia un lieve incremento si era registrato, ma considerevole rimaneva il disinteresse verso questa modalità di lavoro subordinato.

Ad ottobre 2019 erano circa 570mila gli smart worker, in crescita del 20% rispetto al 2018.

La percentuale di grandi imprese che aveva avviato progetti di smart working risultava del 58%, mentre per le PMI si era passati dall’8% dell’anno precedente al 12%, restando, però, dominante l’approccio informale sia per la difficoltà di applicare il modello agile che per le resistenze dei datori di lavoro. 

Dalla Pubblica Amministrazione il dato più preoccupante: 4 PA su 10 non avevano progetti di smart working ed erano incerte (31%) o disinteressate (7%) rispetto alla sua introduzione. 

Questi numeri confermano che il significativo aumento dei mesi scorsi sia stato principalmente frutto di azioni generate dalla paura di paralizzare il Paese, non dal reale interesse ad introdurre tale modello o investire su di esso in termini di infrastrutture e competenze. 

Lacune che, sommandosi alla poca conoscenza della già scarna normativa sul lavoro agile, a causa di una limitata applicazione, sollevano preoccupazioni in vista di una sua auspicabile sostenibilità futura. 

Per continuare a trarne convenienza bisogna creare le condizioni; si tende a mettere in luce gli aspetti positivi, bypassando le criticità. 

In Italia una legge sul lavoro agile esiste da tempo, la Legge n. 81/2017. Una legge che stabilisce che la prestazione lavorativa venga resa definendo tempi di riposo, di disconnessione, strumenti e piattaforme, modalità di controllo da parte del datore di lavoro, violazioni disciplinari e conseguenti sanzioni, ma che, in ragione della sua flessibilità, demanda l’attuazione ad un accordo tra le parti. 

“Gli strumenti che abbiamo – afferma il leader della Cgil Maurizio Landini – sono il contratto collettivo nazionale e il contratto aziendale. Nei nuovi contratti vanno affrontate tutte le questioni e i problemi che sono emersi sull’applicazione dello smart working”.

Se è vero, infatti, che il lavoro da remoto genera facilitazioni, tra le tante, meno traffico, meno assembramenti sui luoghi di lavoro, risparmi aziendali su consumi energetici, di contro è anche causa di dispersione, isolamento e riduzione di quei rapporti sociali tipici dei luoghi di lavoro, difficoltà nel controllo, allungamento fattuale della giornata lavorativa, riduzione delle retribuzioni.

Senza considerare che il sondaggio di Cgil e Fondazione Di Vittorio rileva che, tra gli smart worker il 69% aveva già competenze informatiche, ma il 31% non ne era in possesso e che solo il 31% dispone di uno spazio per poter lavorare da casa tranquillamente. Nella maggior parte dei casi le postazioni sono ricavate oppure si rimedia con un “nomadismo domestico”.

Per non parlare, poi, della difficoltà nel gestire i tempi lavorativi: se il 54% è attento alle pause di lavoro, il 56% degli intervistati presta poca o nessuna attenzione al diritto alla disconnessione, secondo cui il prestatore di lavoro deve essere libero di disattivare le strumentazioni tecnologiche e le piattaforme informatiche di lavoro nei momenti di riposo giornaliero e settimanale.

Il fatto che 8 milioni di italiani siano attualmente in smart working e che a distanza siano stati in grado di assicurare la produzione, talvolta con incrementi, dimostra che non è più procrastinabile un confronto tra le varie parti coinvolte, al fine di risolvere le problematiche connesse a tale modalità lavorativa. 

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