La notte di sabato 16 maggio verrà probabilmente ricordata dalle cronache politiche non solo per l’annuncio (scontato) dei modi di completamento della cosiddetta “fase due” nel superamento dell’emergenza, ma soprattutto per quel che è accaduto dopo la conferenza stampa nel corso della quale il Presidente del Consiglio ha annunziato – ricorrendo ad un eufemismo – che il disegno costituzionale dei rapporti tra Stato e regioni ha ormai necessità di “manutenzione”: la risposta non si è fatta attendere e così la pubblicistica ci racconta di una notte bianca, iniziata subito dopo, nel corso della quale sarebbero emerse tutte le difficoltà nel continuare la gestione di quei rapporti secondo la linea tracciata dalla normativa eccezionale, prodotta in questi ultimi due mesi.
I primi segni del contrasto si erano già manifestati nel momento in cui la Presidente della Calabria aveva preteso di utilizzare la propria potestà “concorrente” per consentire la riapertura di esercizi che, secondo il penultimo DPCM, avrebbero dovuto restar chiusi; ma l’infelice esito di quel tentativo era già apparso come punto di affioramento di un contrasto che ha radici ben più profonde.
La prima di quelle radici è eminentemente politica, consistendo nel diverso assetto delle maggioranze che governano le regioni nel loro insieme rispetto a quello, tuttora faticosamente sostenuto dal Parlamento, che esprime l’attuale Governo giallorosso; ma tale diversità è solo uno degli aspetti che sta spingendo l’uso del potere centrale verso la rotta di collisione con i poteri regionali.
Non possiamo infatti dimenticare che è appunto in materia di riparto delle competenze fra centro e periferia che si sono consumate le diverse modifiche alla Carta Costituzionale operate, con alterne fortune, negli ultimi cinquant’anni e fin troppa polvere si è posata sulla legge n. 382 del 1974, non a caso – a suo tempo – definita, dalla dottrina e dalla giurisprudenza, come legge di completamento costituzionale del disegno organizzativo che regge lo Stato decentrato, voluto dal Costituente nel 1946.
Senza voler ripercorrere le varie dinamiche del rapporto fra Stato e regioni, dobbiamo prendere atto della circostanza che – complici anche le tensioni interne ai Partiti di cui oggi il Parlamento si compone – nei prossimi mesi assisteremo a sempre più violente schermaglie fra il primo e le seconde, senza possibilità di veder approvata alcuna modifica della Costituzione, per la ragione evidente che manca oggi – in quello stesso Parlamento – una maggioranza di due terzi, che consentirebbe al Governo in carica di ottenere subito i poteri (a suo dire) necessari per continuare ad adottare le impopolari misure che stanno dando fuoco alle polveri di una rivolta che né il Giudice costituzionale, né tanto meno il Giudice amministrativo, avranno la concreta possibilità di sedare con i loro sporadici interventi.
I fatti di questi giorni dimostrano d’altronde che i contrasti fra Governo e Regioni sull’uso del potere centrale non riguardano tanto la materia della sanità, quanto piuttosto quella dello sviluppo economico: materia quest’ultima che va ad intersecarsi strettamente con le decisioni che il Governo steso dovrà prendere in esito del confronto in atto con gli altri Partner europei a proposito delle modalità di acquisizione e di uso delle risorse finanziarie indispensabili a contrastare la forte decrescita economica che sembra ormai inevitabile nell’Eurozona, prima ancora che in Italia.
L’altra radice, non meno importante della prima, ha invece carattere organizzativo e riguarda le modalità attraverso le quali i vari uffici della Presidenza del Consiglio si interfacciano con quelli dei diversi Ministeri e persino delle Autorità indipendenti (figure alle quali non sarà mai troppo tardi per rimetter mano, sottoponendone gli apparati a sostanziosa cura dimagrante): materia questa tuttora dominata dalla regola della riservatezza, ulteriormente rafforzata dal decreto-legge dello scorso marzo che, proclamando l’emergenza sanitaria nel nostro Paese, ha pure stabilito di sottrarre all’accesso tutti gli atti, endoprocedimentali e non, che refluiscono nelle scelte politiche oggetto di contrasto con i governi regionali e, talvolta, persino locali.
Regioni e comuni debbono così assistere, impotenti, a scelte – come la sanatoria degli immigrati irregolari – le cui conseguenze ricadono soprattutto sulle amministrazioni locali, senza poter nulla eccepire in ordine al rifiuto di altre più utili sanatorie quali sarebbero quelle in materia edilizia o in materia fiscale e previdenziale, che consentirebbero un po’ di respiro alle esangui casse del Ministero dell’Economia e delle Finanze, oltre a quelle regionali e locali.
Dato il poco spazio a disposizione, evito poi di enumerare le altre, necessarie misure da adottarsi per il rafforzamento e la razionalizzazione degli apparati pubblici nel loro complesso, non ultima quella dell’allungamento dell’età pensionabile dei pubblici impiegati per tutto il tempo necessario all’effettivo svolgimento delle procedure di reclutamento del personale che dovrà sostituirli per raggiunti limiti d’età.
Contribuirà ad aggravare il quadro appena delineato la obiettiva difficoltà che Palazzo Chigi incontra nel confezionare atti a contenuto normativo che hanno a loro volta bisogno, per essere uniformemente applicati su tutto il territorio nazionale, di ulteriori interventi esplicativi da assumere in forma di risoluzione, circolare o altri strumenti di terzo livello dei quali può essere addirittura dubbia l’idoneità a precisare regole di condotta che possano essere portate di fronte ai giudici competenti per ottenerne l’espunzione dall’assetto emergenziale che il nostro Paese ha dovuto frettolosamente darsi per contrastare la pandemia in atto: regole così poco condivise da aver condotto le forze di polizia ad elevare decine di migliaia di verbali a carico di cittadini che difficilmente pagheranno le relative sanzioni senza averle prima impugnate nelle competenti sedi amministrative e giudiziarie.
Prepariamoci dunque a fronteggiare una nuova, paradossale, emergenza: quella per cui più il virus perderà (come tutti speriamo) capacità offensiva e più cresceranno i contrasti fra i poteri che compongono l’odierno Stato regionale, disegnato – oltre settant’anni addietro – per sostituire il modello centralistico che aveva governato i primi ottant’anni dell’Italia unita.
Quel precedente modello sembra infatti riprendere oggi tutta la sua forza e se ancora non è riuscito ad imporsi come nuovo modo di configurarsi del potere pubblico nel suo insieme è solamente perché l’attuale Parlamento non possiede la coesione (e perciò la forza) necessaria a compiere l’opera – di segno contrario – che l’attuale Governo gli chiede: un intervento sul disegno costituzionale dei rapporti fra Stato e regioni che consenta all’inquilino di Palazzo Chigi il compimento delle manovre ritenute necessarie al bene comune, senza esser disturbato dalle iniziative di questa o di quella regione che gridi alle invasioni di campo o, peggio ancora, ai giochini che quotidianamente si consumano all’interno del corpo burocratico centrale, sempre più orientato a privilegiare le figure commissariali, piuttosto che quelle organizzate secondo i principi dell’art. 97 Cost..
Arbitro di tutte queste tensioni dovrà essere, in prima battuta, il Giudice amministrativo – cui spetta anche il compito di filtrare le istanze di rimessione alla Corte Costituzionale degli atti normativi primari adottati dal Governo nazionale, prima ancora che dal Parlamento – nella cui terzietà non possiamo che confidare, riservandoci comunque il diritto (tutt’altro che incontestato) di criticarne le decisioni, quando appariranno evidentemente sbagliate, o anche solamente opinabili.