sabato, 19 Aprile, 2025
Europa

Trump: Le incognite del suo decisionismo

All’indomani dell’insediamento di Donald Trump alla Casa Bianca, confessavo di provare una certa invidia per il funzionamento della democrazia americana, che permette ai cittadini di aspettarsi che il capo dell’Esecutivo da loro scelto faccia rapidamente e con chiarezza quello che si è impegnato a fare chiedendo il loro voto. Mentre il decisionismo, nel nostro Paese, è più temuto che amato dalla società politica e mediatica mentre per il cittadino comune è vero esattamente il contrario. Il fatto che ci sia sempre una scusa più o meno attendibile per non fare, per ritardare, per rinviare , mina alla lunga le basi dell’edificio democratico, perché la gente si abitua a pensare che comunque voti non cambiera` niente di sostanziale.

Esiste però anche il rovescio della medaglia: perché a volte la volontà di decidere con grinta e risolutezza finisce poi per somigliare al delirio di onnipotenza. Ci sono decisioni che non possono essere prese per il buon motivo che sono al di sopra delle nostre possibilità. La recente vicenda dei dazi annunciati, poi applicati, poi sospesi, poi ritrattati è un esempio da manuale. Non sono un esperto di commercio internazionale e capisco che il protezionismo sia la reazione istintiva dell’opinione pubblica rispetto agli inconvenienti della globalizzazione. Nella società statunitense, poi, esiste da sempre uno storico pendolo fra liberoscambisti e protezionisti.

Il problema è che la politica dei dazi ha vissuto la sua età dell’oro, più o meno fra la seconda metà del XIX secolo e gli anni Venti del secolo scorso, perché la maggior parte delle nazioni produceva a partire da materie prime possedute in proprio o predate nei domini coloniali. Oggi quel mondo non esiste più: i mercati globali sono così ampiamente interconnessi che è praticamente impossibile colpire un Paese senza penalizzare i propri stessi imprenditori. L’esempio dell’hi-tech è in questo senso illuminante: un tipico oggetto del desiderio della società consumistica, l’iPhone della Apple, ha un cervello e un design americano, ma la sua componentistica è quasi interamente cinese, taiwanese o africana (soprattutto per i superconduttori).

La spirale dei dazi finisce così inevitabilmente per tradursi in un aumento dei prezzi per il consumatore medio, aggravato da quella svalutazione competitiva del dollaro che gli Stati Uniti utilizzano periodicamente per rinforzare le proprie esportazioni e alleggerire il peso del loro colossale debito pubblico, che è oggi per la stragrande maggioranza in mano straniera.

Anche l’altra grande scommessa delle politiche protezioniste, quella della reindustrializzazione degli Usa, che presenta serie problematiche e incognite. È chiaro che per avere libero accesso al mercato più ricco del mondo diverse aziende italiane ed europee saranno tentate di allocare la loro produzione negli States: ma con quale forza lavoro, visto che il tasso di disoccupazione è oggi intorno al 4%? E come si concilierebbe la crescente richiesta di manodopera con la draconiana politica di rimpatri e di lotta all’immigrazione che è un altro imperativo categorico dell’Amministrazione Trump?

Non è un caso che Elon Musk, intervenendo al congresso della Lega, abbia auspicato che fra l’una e l’altra sponda dell’Atlantico si crei una zona a dazi zero, di libera circolazione reciproca delle merci. Ed è a mio parere molto positivo e utile che sia questa la linea che Giorgia Meloni intende illustrare a Trump nella sua imminente visita anche se Trump su questo e` stato categorico al contrario nelle ultimo ore. Non sarà facile, perché il presidente Usa sembra animato da un infondato rancore verso la Ue, e perché non ci sono solo barriere economiche (si pensi al veto europeo dell’importazione di alimenti OGM, o alle differenze fra indicazione geografica e marchio commerciale), ma è la linea da seguire, anche perché come ammoniva il teorico del libero scambio Frederic Bastiat, “dove non passano le merci passeranno gli eserciti”.

Per questo trovo risibile che, in nome di polemiche di basso livello, il viaggio alla Casa Bianca della nostra Premier sia visto con prevenzione e diffidenza. Gli Stati Uniti sono e restano, da chiunque rappresentati, il principale alleato dell’Italia, la cui collocazione europea non è e non è mai stata in discussione. Ogni Italiano, comunque la pensi, deve augurarsi che la visita di Meloni abbia successo. E che il decisionismo di Trump venga ricondotto a piu` equlibrati principi di realtà e di buona pacifica convivenza .

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