Roberto Saviano, in un suo articolo del 20 aprile su “Repubblica”, ha affrontato il tema del garantismo, affermando un collegamento tra la situazione drammatica della Lombardia ed un “falso” garantismo, proprio in quella regione “andato a puttane”.
Nel sostenere la sua tesi Saviano ha citato alcuni campioni assoluti del “garantismo”: Leonardo Sciascia, uno dei giganti del ‘900, riportandone una frase con la mediazione di un riferimento a Guido Vitiello, il “bibliopatologo” titolare di una rubrica quotidiana su “Il Foglio”; e Massimo Bordin, mitico direttore di Radio Radicale alla cui memoria l’Unione delle Camere Penali (UCP) ha addirittura dedicato un premio.
Mi veniva in mente quell’articolo quando in questi ultimi giorni, tra gli strilli dei continui litigi tra governo, governatori e sindaci, e virologi ed epidemiologici ormai schierati ideologicamente, mi è giunto all’orecchio il piccolo “grido” dell’ANM contro il “ridimensionamento” del processo penale per via telematica.
Il collegamento da me fatto con l’articolo di Saviano è presto spiegato.
Guido Vitiello – che, con dotti riferimenti ad André Gide ed a Baudelaire, ha già protestato la non pertinenza della citazione di Saviano – proprio pochi giorni prima aveva manifestato una totale avversione al processo telematico, ricordando, col “Papà Goriot” di Balzac, la facilità di mandare a morte da Parigi un Mandarino cinese nel suo Paese: «quanto più il destinatario delle nostre decisioni si fa lontano, astratto e irreale, tanto più la nostra empatia si dirada e siamo pronti ad agire a cuor leggero».
Non avrei notato quel grido del Sindacato dei Magistrati, se non avessi colto in esso una nota stonata: il risentimento verso il Ministro Buonafede manifestato con la minaccia di astensione dei giudici dalle udienze e la richiesta di dimissioni dello stesso Guardasigilli.
Non vorrei, a questo punto, per quanto sosterrò nelle prossime righe, essere preso per difensore del Ministro. Certo, essendo egli un Avvocato, saprà difendersi da solo.
Ciò posto ci separa una differente sensibilità giuridica: rispetto da parte mia per l’istituzione, ma non condivisione di alcuna delle soluzioni da lui proposte nel tempo, dalla prescrizione al processo telematico odierno, che non doveva essere a mio avviso “ridimensionato”, ma neppure proposto.
Il problema principale del nostro paese, da oltre 20 anni a questa parte, è costituito dalla soggezione del potere legislativo – della politica cioè – al potere giurisdizionale.
Il Parlamento è stato esautorato delle sue funzioni legislative.
Il potere esecutivo legifera in sua vece; in gran parte con la decretazione d’urgenza che per la Costituzione dovrebbe costituire l’eccezionalità, il rimedio a situazione da regolare con urgenza; e in parte a mezzo di decreti “delegati” dal Parlamento, per l’appunto: che delega il governo ad emanare una legge su una determinata materia, stabilendone l’oggetto ed i limiti: uno strumento sempre più utilizzato. Nell’ambito di un bilanciamento costituzionale, potere esecutivo e giurisdizionale dovrebbero correttamente costituire il fulcro dell’azione statuale. Ma quando si verifica la prevalenza di un potere sull’altro, si perviene ad una situazione critica, che determina una patologia.
Il giudice – compresi in tale termine anche i magistrati che sostengono l’accusa – è tenuto ad applicare la legge. L’influenza avuta negli ultimi decenni sul potere legislativo ed il prevalere dell’interesse ha determinato la situazione attuale, l’aberrazione giuridica che già l’essere indagato è un atto sufficiente per determinare conseguenze negative e la convinzione popolare che si ha giustizia solo quando il processo si conclude con una sentenza di condanna.
Più volte ho sostenuto che non si può fare una colpa al giudice dei provvedimenti assunti, ma al legislatore che ha promulgato le leggi che chi giudica deve applicare.
Il processo tecnologico, che le Camere Penali hanno sventato con la forza degli argomenti, senza ricorrere a scontri con le istituzioni, avrebbe costituito l’ennesima aberrazione e prevaricazione verso i diritti dei cittadini.
Una violazione non soltanto della nostra Costituzione, ma anche dell’art. 6 CEDU, la Carta dei diritti dell’uomo che impone, nell’ambito del giusto processo, la pubblicità e l’oralità.
Che nessuna riunione via chat controllata dall’esterno potrà mai garantire.