C’era una volta un Conte. Era nero corvino di capelli, gentile, anche troppo, e di prima nomina, anzi di auto-investitura nobiliare. E governava su una terra infelice, con due luogotenenti (drappo gialloverde): Giggino e Matteo. Il primo sudista, il secondo nordista. Il clima si fece subito arroventato: molti nemici, molto onore.
E il regno fu giudicato razzista, non accogliente, omofobo e dittatoriale, confuso, contraddittorio.
I due luogotenenti, infatti, vennero presto alle mani. Dopo un primo rapporto amoroso (si baciavano ovunque, perfino sui muri), qualcosa si ruppe. E cominciarono ad odiarsi (l’odio è la parte più disperata dell’amore). Il vero motivo era che Giggino stava perdendo il suo esercito, mentre Matteo aumentava le truppe. Sulla sua zattera padana, molti fan, ma pure molti mercenari dell’ultima ora.
Scattò inevitabile l’invidia, scattò la rivalità, la competizione. Il regno di Conte rischiò di andare in frantumi.
E ad un certo punto, Matteo accaldato, in riva al mare, in pieno agosto, a suon di musica, in compagnia di nobildonne e intellettuali raffinati, nell’impossibilità di avere le mani libere e di essere solo al comando, decise di lasciare baracca e burattini, nella speranza di essere richiamato e promosso sul campo dallo stesso Conte.
E invece che fece il Conte? Si duplicò. E nacque così il Conte di seconda nomina. Stesso schema, sempre con due luogotenenti (drappo giallorosso): ancora Giggino e new entry, Zinga, capo della ridotta laziale.
E il regno sembrò, per magia, di nuovo buono, felice, democratico, solidale, europeista, accogliente verso tutto e tutti, accettato dalla Ue.
Ma all’improvviso, un fulmine a ciel sereno: la peste di manzoniana memoria. E il regno finì di nuovo nel caos e nell’angoscia. Un’altra corona nemica all’orizzonte, chiamata “Coronavirus”. Morti e malati ovunque, specialmente al Nord.
E cosa rifece il Conte? Lasciò sempre in piedi i due luogotenenti a giocare da capi, come criceti con la loro rotella (uno divenne ambasciatore cinese, l’altro l’esperto di virus e mascherine), ma nominò (come consigliere speciale) un altro blasonato, con l’obiettivo di salvare capra e cavoli: il granduca MonoColao. Sua parola d’ordine: gestire la peste e il dopo-peste, pensando al regno futuro. Cioè, un erede al trono. Visto che il Conte non aveva e non ha ancora al momento, eredi legittimi e non si fidava e non si fida, né di Giggino, né del Zinga.
E qui veniamo al presente. Riassumiamo la cronaca di questo mese quasi alle spalle. MonoColao si mette immediatamente al lavoro, organizza feste su feste, col complesso “Task-Force band” (inventandosi il Festival di Bielderberg della canzone), aperto a un pubblico “altamente” selezionato nei salotti buoni, e dalla giuria “Poteri forti”, per individuare la persona giusta.
Ed escogita una scarpetta tecnologica, che si chiama “Immuni”. Un’app studiata per individuare gli aspiranti eredi e controllare scientificamente i movimenti dei sudditi. Peccato, che gli uomini del regno siano in gran parte contagiati dal virus. E non riescano ad entrare nella scarpetta. Chi si giustifica con la lunghezza del piede, chi col fatto che non è obbligato a farlo (la scarpetta sulla carta è facoltativa).
Ma solo da poco MonoColao ha scoperto la triste verità. Il Conte vuole succedere a sé stesso. E’ tutto un gioco. E allora ha preso una decisione: fare un colpo di Stato per rovesciare il Conte. Anche perché si ha notizia di un Draghi cattivo che gira per le foreste. Un mostro terribile, che emette fuoco americano dalle narici e ha una lingua immensa, come l’Europa.
Come finisce la storia? Il Conte, il Draghi e MonoColao sono tutti al medesimo bordo di partenza. Vincerà il migliore. Si attendono veleni, colpi di scena e duelli concitati.
Alla prossima puntata. (Lo_Speciale)