Durante queste settimane di informazione continua sulla pandemia abbiamo letto e ascoltato interviste a molti autorevoli ricercatori italiani che sono stati costretti ad andare all’estero, dove occupano posizioni di rilievo.
Un’amarissima constatazione che dovrebbe imporre nell’agenda del dopo il tema della ricerca come uno dei più urgenti.
Si chiama brain drain, il drenaggio o fuga dei cervelli che colpisce l’Italia in maniera sproporzionata rispetto ad altri Paesi. Mentre, infatti, è fisiologico che ci sia una piccola percentuale di ricercatori che possono scegliere di andare all’estero per motivi vari, anche legati a specifiche attività professionali, è patologico che circa 3.000 ricercatori siano costretti ogni anno ad abbandonare l’Italia perché non vengono adeguatamente valorizzati e perché non trovano lavoro. La nostra percentuale di cervelli in fuga è del 2,3% rispetto all’1,1% della Francia, dello 0,8% della Germania e della Spagna, dello 0,6% del Regno Unito.
Perché questo avviene? Non certo perché le nostre strutture accademiche non sono in grado di “produrre” ricercatori. Tutt’altro. Il problema è la overeducation: formiamo più ricercatori di quelli che il nostro sistema accademico riesce ad assorbire. Ridurre il numero dei ricercatori da formare sarebbe un ulteriore grave danno, perché impoverirebbe definitivamente il patrimonio scientifico dell’Italia. La soluzione consiste, ovviamente, nel dare opportunità di lavoro e reddito adeguato a queste figure cruciali per lo sviluppo tecnico-scientifico.
La fuga dei cervelli costituisce un doppio danno, calcolato in circa 2 miliardi di euro l’anno. Un miliardo equivale a quello che nel corso dei tanti anni di studio il sistema Italia ha speso per la formazione dei ricercatori che se ne vanno. Un altro miliardo è il danno subito per i mancati introiti dovuti alle tasse pagate all’estero ma soprattutto al valore dei brevetti depositati non in Italia.
Un ricercatore italiano guadagna appena 1.200 euro, un terzo della media dei suoi colleghi europei. E in più il nostro ricercatore non ha un futuro, un percorso di carriera su cui investire. È precario e abbandonato a se stesso.
A fronte di questa estrema instabilità delle figure emergenti della ricerca abbiamo invece una eccessiva protezione del corpo accademico che vive di certezze assolute.
I docenti universitari, conquistato il posto, lo tengono fino alla pensione a prescindere dalla qualità e dalla quantità dell’attività didattica e di ricerca. E questo contribuisce, ulteriormente, a indebolire la ricerca italiana: se tutti i docenti universitari sono pagati allo stesso modo, a prescindere da quello che fanno senza alcuna verifica periodica delle loro attività viene meno uno degli incentivi ad impegnarsi di più.
Si potrebbe immaginare di ribaltare le condizioni tra docenti e ricercatori: stabilizzare e rendere meno precaria la carriera dei secondi, trasformare a tempo determinato i contratti dei docenti, subordinandone il rinnovo all’accertamento del raggiungimento di rigorosi parametri didattici, di ricerca e di pubblicazioni. In questo modo si eliminerebbero rendite di posizione, si incentiverebbe la produzione scientifica dei docenti e si darebbero certezze e dignità ai ricercatori.
L’Italia deve arrestare la fuga dei cervelli offrendo retribuzioni e prospettive di impiego e di carriera ai ricercatori, investendo sempre di più nella ricerca con forme di collaborazione sempre più strette tra Stato e privati e razionalizzando la gestione dei fondi.