domenica, 22 Dicembre, 2024
Società

Mefistofele inaugura la Stagione del Teatro dell’Opera di Roma e fa centro sul nostro tempo

Affrontare il Mefistofele non è mai senza prezzo, lo sapeva bene Goethe, uno tra i pochi uomini universali che il cielo ci ha offerto, capaci di sopportare e rappresentare gli appetiti insaziabili della carne e dello spirito e la guerra che spendono su quel campo di battaglia che è chiamato uomo. Parto da Goethe perché a lui dobbiamo il “Faust”, quell’opera tanto terribile quanto irrinunciabile se si vuole avvicinarsi alla luce che acceca della verità. E proprio nel passaggio dalla luce alla tenebra, proprio nell’immagine del gorgo aperto al fondo a nuove chiarezze, che si incontra la brama e il terrore che ogni commensale dell’esistenza assapora vivendo. Lo sapeva bene anche Arrigo Boito, che per arrivare a realizzare un’opera entrata di fatto nel canone operistico delle rappresentazioni eternamente giovani, ha dovuto affrontare il disastro e perdersi nel labirinto dove bene e male si scambiano d’abito per condurre a perdizione: dopo una profonda rimessa in discussione, attraverso grandi tagli strutturali che ne dimezzarono la durata, il Mefistofele fu un trionfo assoluto. A mia volta ho pagato il mio pegno interiore guardando il “Mefistofele” da una poltrona del Teatro dell’Opera di Roma, guidata e alle volte trascinata nel viaggio dall’intenzione del regista Simone Stone e del direttore d’orchestra Michele Mariotti. Mefistofele è un’opera che morde le carni, che ti costringe a riconoscere il potere della carne, la necessità dell’alterità per arrivare a una salvezza qualunque. Quel che rilevo, e non come un vizio ma come un’occasione, è la distanza a tratti tra il lavoro di Mariotti e l’impianto registico, anche se questa frattura serve e salva quel tormento interno, quella suggestione dissociativa, che un’opera tale deve instillare nell’animo dello spettatore, rendendo un’assonanza col destino stesso di Faust, colui che passa un’intera vita a cercare di raggiungere la parte più pura, più alta di se stesso e nell’incontro con Mefistofele si sporca, entra a contatto con la parte più corrotta, più egoica di se stesso, ed è il solo che si rende conto che la conoscenza, la vera conoscenza che aveva perseguito in una vita di studio e isolamento, non può raggiungersi se non attraverso l’incontro con gli altri e la parte più bassa di se stesso. E non si può non domandarsi cosa di lui racconti ognuno di noi.

Questo “Mefistofele” di Arrigo Boito, infatti, proposto in apertura di Stagione 2023/2024 del Teatro dell’Opera di Roma segna il debutto operistico in Italia del grande regista Simon Stone. Lo spettacolo – coprodotto con il Teatro Real di Madrid – vede impegnato sul podio il direttore musicale della Fondazione Capitolina Michele Mariotti, che affronta il titolo per la prima volta. Protagonisti John Relyea nel ruolo del titolo, Maria Agresta nella parte di Margherita/Elena e Joshua Guerrero in quella di Faust. Scene e costumi dello spettacolo sono di Mel Page, mentre le luci di James Farncombe. L’Orchestra è quella dell’Opera di Roma, così come il Coro, diretto da Ciro Visco, cui si affianca il Coro di voci bianche del Teatro.

Dal punto di vista critico ritengo che, se il regista desiderava rappresentare il vuoto, vero male di questo tempo, è riuscito perfettamente nell’intento, l’impianto scenico è dominato da un bianco asettico, non candido, gli ambienti non scaldano e non turbano, i personaggi si muovono immersi in un mondo a misura di marionetta, in un appagamento psicopatico e di superficie. Il coro, strepitoso, è fissato immobile sulla scena come farfalle inchiodate in uno stabulario, che cantano un’ode al sublime che poteva realizzarsi e non è stato. Del resto il regista lo aveva già sottolineato in conferenza stampa: è il coro il vero protagonista di quest’opera, insieme alla musica, perché nessun aria di nessuno dei cantanti ha, come invece il coro, il compito di rappresentare l’armonia ideale a cui dovrebbe aspirare l’uomo. Credo dunque che la scelta registica sia centrata, perfettamente inserita nel male contemporaneo che fa germogliare il nulla: siamo oltre il gusto dell’infliggere dolore, oggi il male ignora il dolore, cerca solo la sua soddisfazione, balla sui cadaveri perché ha voglia di ballare, del tutto indifferente al tappeto sotto i piedi. Quanto ai cantanti, le performance sono state buone di tutti, ma Margherita è stata superlativa, fulgida nella sua disperazione e nel suo delirio, unica a portare la croce di ciò che è vivo, del sangue che scorre dentro un cuore straziato da perdite e errori da cui uno spirito timorato e puro non ha gli strumenti per auto-assolversi; rendere tutta questa contorsione interna attraverso il fraseggio, soprattutto, è stata impresa mirabilmente conclusa. Più di tutto grandissima è stata l’Orchestra, e la direzione del maestro Michele Mariotti, che è riuscito a portare in scena la complessità di timbri, colori, tempi, della scrittura musicale di tipo verticale del Mefistofele, spesso consistente in arpeggi, ma anche la fisionomia musicale chiara e differente dei tre personaggi. E sempre il maestro Mariotti ci esplicita il messaggio dicendo:” gli opposti sono inevitabili nella nostra vita, e il compromesso, in tutto quel che riguarda la nostra vita, è necessario infondo.”

Simone Stoneal suo debutto a Roma Simon Stone – pluripremiato drammaturgo, regista e sceneggiatore australiano – è chiamato a interpretare, con il suo stile unico, iperrealista e tagliente, il mito mefistofelico che Johann Wolfgang von Goethe lasciò in versi tra il 1772 e il 1832, e che Arrigo Boito trasformò in un dramma monumentale messo in scena per la prima volta nel 1868. Nella sua carriera da regista d’opera ha trasformato Violetta Valéry in un’influencer, ambientato la vicenda di Lucia di Lammermoor nel “Rust Belt” americano e raccontato l’amore di Tristano e Isotta tra i grattacieli di New York. Da giovane descritto come l’enfant terrible del teatro australiano, è oggi tra i registi più richiesti della scena internazionale e le sue produzioni operistiche sono arrivate sui palchi più prestigiosi, dalla Metropolitan Opera House al Festival d’Aix-en-Provence, fino a Salisburgo. Vorace lettore di classici fin dall’adolescenza, Stone ama riscrivere il tragico per il pubblico contemporaneo, prendere il mito e adattarne gli archetipi al nostro presente.
Appena ventenne fonda la sua prima compagnia teatrale, guadagnandosi l’attenzione della critica per le sue letture di Ibsen e di Čechov: «Simon Stone conosce la fedeltà all’opera solo in senso molto figurato: riscrive lui stesso i suoi classici, attualizzandoli con una sfacciataggine e una schiettezza spensierata che stupisce ed emoziona» ha scritto di lui la giuria del Premio Nestroy, che lo ha gratificato nel 2015 per il suo adattamento del John Gabriel Borkman di Henrik Ibsen. In Italia, Stone ha debuttato nella prosa nel gennaio 2018 con Le tre sorelle di Anton Čechov (Opera dell’anno per la rivista tedesca Theater Heute) al Teatro Stabile di Torino. Tra le produzioni più recenti, il suo allestimento al Festival di Salisburgo 2023 di The Greek Passion (Řecké pašije) di Bohuslav Martinů, drammatica storia di immigrazione e accoglienza che vede protagonista un gruppo di rifugiati greci e che ha ottenuto grande favore di pubblico e critica. Tra i titoli di prosa, ha firmato Phaedra (National Theatre), Yerma (Young Vic) e The Greek Trilogy (Berliner Ensemble).
Ultima nota di merito va al Calibano, la rivista del Teatro dell’Opera di Roma, che dopo Aida/Blackface (Gennaio 2023) e Madama Butterfly/L’Orientale (Giugno 2023), esce in occasione del Mefistofele e si interroga sul tema del postumano, oggi rintracciabile nelle forme e negli ambiti più svariati.
Si parla ovviamente di intelligenza artificiale, e di tutti i rischi anche etici connessi con il suo sviluppo; ma anche di ectogenesi, ossia della gravidanza esterna al corpo della donna; dell’eredità digitale dopo la morte e delle nuove inquietanti forme di interazione con gli avatar dei defunti; del superamento dei limiti fisici e fisiologici nello sport, attraverso l’impiego di dispositivi tecnici e medici. Ampio spazio anche alle arti, con i possibili sviluppi della danza nel metaverso, con uno sguardo sull’uso delle macchine per ampliare le modalità di produzione sonora in musica, e con una ricognizione del postumano nel mondo della graphic novel e delle serie tv. La letteratura offre poi un vasto immaginario di drammi legati al superamento della finitudine umana, da Frankenstein di Mary Shelley a Poor things di Alasdair Gray, recentemente divenuto un film grazie a Yorgos Lanthimos, vincitore del Leone d’oro a Venezia.di Mefistofele/Postumano è pubblicato un testo di Verena Andermatt Conley, docente di Harvard, sulla possibile interpretazione odierna della figura di Faust, accanto a un articolo del musicologo Giuliano Danieli che prende in rassegna le più recenti esperienze del teatro musicale influenzate dal postumano.
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Rosalba Panzieri

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