venerdì, 21 Febbraio, 2025
Attualità

Indi, la politica come fine e la giustizia come mezzo

Mentre mi accingevo a tornare sulle cronache della giustizia italiana per raccomandare, ancora una volta, di introdurre una riforma che si ispirasse quanto più possibile al sistema anglosassone è arrivata – come uno tsunami – la notizia sconvolgente della morte della piccola Indi Gregory, a seguito del diniego opposto, dai giudici di Londra, ai Suoi genitori che volevano continuare a tenerla intubata per consentirle la sopravvivenza in attesa di trovare le cure necessarie a sconfiggere la sua malattia mortale. Il giudice Jackson si è mostrato irremovibile perfino dinnanzi all’iniziativa del nostro Governo che – nel conferire con urgenza alla bimba la cittadinanza italiana – aveva pure chiesto di poterla prendere incarico per farle continuare le cure presso l’Ospedale romano Bambino Gesù. Quella decisione giudiziale è stata dottata assumendo, rispettivamente, come princìpi fondanti quello – corretto – del “Parens Patriae Jurisdiction” (secondo cui i giudici sarebbero delegati dal sovrano ad esercitare la giurisdizione anche nell’interesse di coloro che non siano in grado di prendersi cura di sé medesimi) e l’altro – invece erroneo – della non applicabilità, alla fattispecie, dell’art. 6 della Convenzione dell’Aja del 15 novembre 1965 (relativo alla notificazione – al giudice inglese – della decisione italiana sul conferimento della cittadinanza alla stessa Indi e sui connessi riflessi relativi alla cessazione della competenza giurisdizionale inglese relativa alla sorte della Piccola). Tentando di allontanare ogni personale aspetto emotivo da quanto accaduto, ho provato a comprendere come sia possibile che, in un Paese civile e democratico come l’Inghilterra, si possa giungere a condannare a morte una bambina indifesa, risolvendo in danno di quest’ultima il contrasto che oppone i medici ai suoi genitori. Ho dovuto poi prendere atto che la condanna a morte di Indi sarebbe stata pronunciata addirittura nell’interesse di quest’ultima, vista la sua incapacità ad effettuare direttamente una scelta fra le sofferenze che la affliggono e la speranza di una, seppur improbabile, guarigione. Un paradosso? Certamente! Ma di quanti paradossi viene a comporsi qualunque sistema giudiziario, sia esso fondato sulla discrezionalità dei giudici (come in Italia) oppure sul principio del precedente vincolante (come, appunto, nel Regno Unito)? Ma a quel paradosso se ne aggiunge uno ancora più inquietante: quello per cui, quando in Italia si sono verificati episodi simili a quello di Indi, anche in quei casi – in presenza del (frequente) contrasto fra medici che ritengono di dover estubare i piccoli e genitori che vogliono invece mantenerli intubati – la decisione è spettata ancora una volta ad un giudice e quest’ultimo, pur non vincolato, nelle sue determinazioni, dallo “Stare Decisis” come il suo collega inglese, ha deciso – nella maggior parte dei casi – allo stesso modo del giudice Jackson: privilegiando cioè la scelta dei medici, rispetto a quella dei genitori, ancora una volta invocando l’interesse del minore, pur da quest’ultimo non esprimibile come tale. Per comprendere come sia possibile questa identità di conclusioni, cui poteri giudiziari operanti in sistemi fra loro diversissimi giungono, occorre fare un passo indietro e andare a ripercorrere le vicende storiche che hanno portato gli ordinamenti dell’intero Occidente cristiano ad allontanarsi progressivamente dalle loro radici religiose, mentre l’Oriente musulmano – attraverso il ricorso alla Shari’a – le esaltava e le rafforzava. Siamo così giunti ad un allineamento, fra democrazie da una parte e teocrazie dall’altra, che ha avuto come prima drammatica conseguenza lo scontro fra due modi opposti ed inconciliabili di concepire il fenomeno giuridico (inteso come insieme di “regole per lo stare insieme”): il primo fondato sulla ricerca della volontà dei popoli come legittimazione per il conferimento dell’autorità ai tre poteri separati e il secondo imperniato invece, essenzialmente, sulla presa d’atto della volontà divina come base per legittimare l’insediamento di quella stessa autorità a governare popoli che si erano riconosciuti in un preteso superamento del messaggio di Cristo come diffuso ad opera del Profeta Maometto. Anche se non ho alcuna intenzione di spendere una sola parola in favore della Shari’a – in osservanza della quale vengono anche perseguitate le donne in Iran – mi rendo conto di quanto possano essere scomode queste riflessioni, almeno rispetto al consolidato modo di concepire certi fenomeni da parte dei giuristi occidentali e debbo anche dare atto, a chi voglia tacciarle di superficialità e semplicismo, della possibile fondatezza di una simile critica; ma ciò non toglie che sarebbe opportuno approfondire un tale approccio, almeno per fugare ogni dubbio a proposito della correttezza di scelte drammatiche come quelle che riguardano la anticipata condanna a morte di creature indifese come la piccola Indi. In altre parole, vorrei dire che – se in Oriente occorre temperare il senso religioso impresso ai singoli ordinamenti, con il richiamo al valore laico della ragionevolezza – l’Occidente dovrebbe a sua volta temperare la laicità dei propri sistemi giuridici, reinnestandovi alcuni principi del cristianesimo, persi lungo la strada che ha portato al trionfo di quella stessa ragionevolezza in base alla quale la bambina inglese è stata uccisa: perché questo è avvenuto per effetto della deintubazione di quel suo corpicino incapace di reagire alla violenza che è stata perpetrata su di Lei. Voglio dunque proseguire il mio ragionamento, ponendo una domanda a chi si è sentito impotente rispetto a quanto è accaduto in questi giorni: siamo proprio sicuri che non occorra tornare al primato della politica come arte di governo, rispetto alla giustizia come strumento originariamente allestito dalla politica stessa per evitare che i governati tornino ad impugnare armi per salvare i loro familiari dall’uso di quello stesso strumento, quando possa manifestarsi un eccesso di rigidità nel ricorrervi? Giudici di Paesi orientali avrebbero infatti posto, alla base della loro decisione, ragionamenti completamente diversi da quelli utilizzati nel nostro Occidente per ordinare l’estubazione di Indi e magari la Piccola avrebbe potuto continuare a vivere, ove la volontà di Dio fosse stata individuata in quest’ultima scelta, anziché in quella – rigorosamente laica – che l’ha condannata precocemente a morire.

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