Fossi nato un secolo prima (nel 1853 invece che nel 1953) avrei certamente cercato di fare amicizia con Errico Malatesta (1853-1932), ricordato genericamente come anarchico, ma in realtà molto più complesso; nella mia lettura, soprattutto, liberale e libertario. Profferta di amicizia che trova un supporto nell’avere il nostro certamente conosciuto il mio avo collaterale, Roberto Marvasi. Lo sostengo perché Malatesta recensì nel 1924 il suo libro “Dopo il martirio”, esplicito atto di accusa contro la monarchia, ritenuta connivente e moralmente complice nel delitto Matteotti: credo che tutti e due, scrittore e recensore, pagarono caro l’affronto al regime…
Premessa che ho ritenuto necessaria perché nel dialogo di oggi sosterrò nei confronti della legge posizioni contraddittorie che, senza il richiamo culturale a Malatesta, potrebbero apparire bizzarrie. Ma tali non sono perché ispirate a un suo pensiero sulla verità e sulla libertà: «Il principio di libertà impedisce di riconoscere una sola verità: ognuno ha la propria verità, e anche la propria anarchia. In società, tuttavia, la libertà non può essere assoluta, ma deve essere limitata dal principio della solidarietà e dell’amore verso gli altri».
Richiamo a Malatesta che, per una contorta associazione di idee mi è stato suscitato dalla scomparsa del Presidente Emerito della Repubblica, Giorgio Napolitano. Ho un personalissimo ricordo in occasione di un premio universitario al mio figlio maggiore. Nel rinfresco che seguì ebbi l’occasione di scambiare qualche battuta col Presidente, l’unico Capo di Stato che ho avuto l’onore di incontrare nella mia vita. Anzi fu egli che, apprendendo il mio cognome, mi chiese se avessi qualche legame con Roberto Marvasi.
Percorsi delle mente, associazione di nomi, circostanze, idee. Forse sempre quel filo invisibile di Jemolo che ogni tanto mi sembra di seguire.
Mi vergogno un po’ di tutta questa manfrina, che introduce una notiziola di cronaca, che tale non è perché non c’è la notizia: tant’è che la notizia, come spesso accade nella nostra civiltà mediatica, non è data dal fatto in sé, ma dall’indignazione manifestata dal giornale che l’ha riferita.
La (non) notizia è che un maturo signore ha viaggiato con la sua Porsche sull’Autostrada Milano Serravalle alla velocità di 150 chilometri orari per alcuni minuti. Mi viene spontaneo un commento in romanesco; col dubbio – che non mi ha risolto nemmanco Marco Giallini in un suo intervento sulla linguistica romana – se fosse più appropriato commentare con “me’ cojoni” o con “sti cazzi”. Per non sbagliare mi taccio.
Ça va sans dire che la (non) notizia l’ha data lo stesso autore dell’infrazione stradale, il quale, alla inspiegabile moda dei giovanissimi, ha pubblicato sui social un video con la sua bravata. La notizia ha suscitato l’indignazione di Selvaggia Lucarelli (che avrebbe parlato dell’eccesso di velocità su Il fatto Quotidiano e sul Domani), mentre il Corriere della Sera di venerdì, con un articolo di Giovanna Maria Fagnani, ha parlato dell’indignazione della prima.
Il riferimento alla (non) notizia finisce qua, senza neppure dirmi indignato dell’indignazione altrui, volendo così spezzare la catena mediatica. Col che, finalmente, entro nel tema, annotando per l’ennesima volta che ogni fatto di cronaca determina una nuova legge.
Così gli incidenti stradali diventati un’emergenza, al di là di un aumento statistico che lo giustifica, hanno indotto a nuove norme del Codice della Strada, nella errata ed ignorante convinzione che con gli inasprimenti di sanzioni e con l’invenzione di nuovi reati si risolve il problema: provvedimenti che, invece, a tutto servono (a creare cassa per i Comuni; a dotare l’Autorità di strumenti coercitivi contro i cittadini) tranne che determinare maggiore sicurezza.
Primo imputato, la velocità. La velocità maggiore certamente determina conseguenze più gravi in caso di sinistro; ma sanno bene tecnici e statistici che gli incidenti che hanno causa nella velocità eccessiva sono una piccola minoranza e che la quasi totalità degli incidenti è data da guida mentre si è alterati per alcool o droga, da colpi di sonno, da stanchezza, da incapacità.
«In Germania, il paese delle Autobhan e dei percorsi privi di limiti di velocità, i morti in seguito ad incidente sono stati 37 per 1 milione di abitanti. In Italia quasi la metà in più: 53. La media europea è 48» (fonte: Automobilismo.it).
Il che mi rafforza nella mia (come sempre opinabile) opinione. Ma anche nella mia convinzione che la maggior parte dei limiti di velocità rispondono ad esigenze di ricerca di esonero da responsabilità degli enti e dei funzionari che li impongono. Così è successo dopo il tragico incidente in cui nel 2018, a Roma, sulla Cristoforo Colombo, strada con sei corsie (tre per ogni senso di marcia) ha perso la vita Naomi Carrozza, promessa del nuoto sincronizzato: limite di velocità a 30 chilometri orari. Come a dire, se vi ammazzate sono cavoli vostri, vi abbiamo detto di non superare i trenta all’ora.
Ma i limiti di velocità seguono la mia idea preconcetta verso il nostro sistema, dove tutto è vietato e tutto è tollerato fino a quando non si entra nel mirino di qualche potere.
Il generale non rispetto di quei limiti da parte degli automobilisti è una piccola, ma plateale prova del rapporto di non fiducia del cittadino verso lo Stato: non si crede ai cartelli stradali, come non si crede a tante altre imposizioni e comunicazioni.
I ragazzi muoiono di notte, tornando a casa: la pienezza della loro vita e la forza della gioventù li porta – io ne sono stato un esempio assoluto – a comportamenti non propriamente cauti. Mettere un limite di velocità o divieti e punizioni più severe non è un rimedio, ma solo un modo di dare un’apparente soddisfazione alle famiglie delle vittime: ma scordandosi che è un evento in cui non c’è il dolo.
La mia parte anarchica mi induce a richiedere non leggi repressive, ma prevenzione. E, riguardo ai giovani, informazione e mezzi alternativi per tornare a casa dopo la discoteca.
Perché le leggi, anche con la sanzione più severa, hanno il difetto di non essere osservate da chi comunque voglia trasgredirle.