Tutto quanto riguarda un processo deve essere custodito nell’Archivio di Stato della città dove quel processo si è tenuto. Accade così che i 256 faldoni che contengono le carte del processo della tragedia del Vajont dovrebbero trovarsi a L’Aquila e invece sono a Belluno. E proprio quest’anno, a sessant’anni di distanza, la questione potrebbe essere risolta una volta per tutte.
“In punta di diritto”, dice, Luca De Carlo, senatore di Fratelli d’Italia e sindaco di Calalzo, “la partita è persa. La legge parla chiaro, i documenti devono stare a L’Aquila. Ma la nostra è una ragione di cuore: qui si sono contati quasi 2000 morti e 487 erano dei bambini. I bellunesi vorrebbero avere vicino qualcosa di concreto che ci parla ancora di loro, come quando si perde una persona cara e gli oggetti che gli sono appartenuti in vita assumono un valore inestimabile.”
Ma la legge è legge e, non solo; anche dall’Archivio abruzzese ci tengono a riavere tutto perché il recupero della documentazione del processo del Vajont ha comportato un lavoro immane, di vero e proprio impegno civile. Ogni carta è stata “salvata” dagli scantinati disastrati del Tribunale proprio perché raccontava un pezzo di una tragedia che aveva colpito tutti gli italiani. Questione di cuore, anche qui.
Tragedia nella tragedia
La vicenda dei faldoni del Vajont nasce nel 2009 quando un terremoto devastante colpisce la città e anche l’Archivio di Stato de L’Aquila. Per salvare quelle testimonianze si decide di portare, temporaneamente, la documentazione all’archivio gemello di Belluno. Si firma anche una convenzione che vale dieci anni dal 2010. Sottoscrivono la Direzione generale Archivi, Archivio di Stato dell’Aquila, Archivio di Stato di Belluno, Enel, Fondazione Vajont, Comune di Longarone. La “Fondazione Vajont 9 ottobre 1963” paga le spese e continua il restauro, la digitalizzazione; compresa la conservazione di modellini, cartografie, sismografie e quant’altro non digitalizzabile. Al 2020, però, i bellunesi riescono ad ottenere una proroga perché alcuni restauri non erano ancora finiti e soprattutto per la difficoltà nel reperire ulteriori risorse per la creazione di un portale web per la messa a disposizione del materiale digitalizzato. E siamo arrivati al 2023 a, esattamente, sessant’anni dalla tragedia, ma la questione dell’archivio del Vajont non è ancora risolta pienamente e con soddisfazione di tutti.
L’dea del gemellaggio
A questo punto Luca De Carlo, che si è già rivolto al ministro Sangiuliano (il Ministero della Cultura è competente per gli Archivi di Stato) annuncia che si farà un supplemento di indagine per mettere a fuoco una soluzione. Intanto l’idea suggerita dal senatore bellunese è quella di promuovere un gemellaggio tra le due città e quindi una “gestione condivisa” dell’archivio del Vajont. I dettagli andranno discussi, ma è indubbio, spiega De Carlo che “Belluno e L’Aquila sono città montane, sono città di lunga e consolidata tradizione alpina, sono città che potrebbere benissimo interloquire, per sempre, anche sulla gestione comune della momoria di questa immane tragedia.” Pertanto al di là di tutto, se è una questione di cuore per gli uni e per gli altri, è il momento per gettare il cuore oltre l’ostacolo. “Il mio scopo”, dice De Carlo, “è evitare il muro contro muro e sono particolarmente felice anche dell’atteggiamento dell’Archivio de L’Aquila perché dimostra che, sia che le carte di quel processo rimangano a Belluno sia che vengano trasferite nuovamente a L’Aquila, qualcuno se ne prenderà cura con impegno professionale e passione civica e per sempre.”
Insieme si può fare come si è fatto per l’inserimento dei fascicoli processuali nel registro internazionale Memory of the World. In quel caso, la procedura avviata dall’Associazione “Tina Merlin” di Belluno, è stata condivisa dagli Archivi di Stato di Belluno e de L’Aquila e dalla Fondazione Vajont.
Attendendo la decisione
Così vanno le cose. Quel processo è in 256 faldoni che attendono una qualche decisione: fu svolto a L’Aquila, cinque anni dopo la tragedia, per la regola della “legittima suspicione”, ovvero perché non si avesse il sospetto che i giudici fossero influenzati dall’opinione pubblica del territorio dove erano accaduti i fatti. I famigliari dei morti furono costretti a lunghe e costose travesate in treno per poter assistere al dibattimento o testimoniare. La sentenza definitiva della Corte di Cassazione fu letta il 25 marzo 1971, soltanto quattordici giorni prima del 9 aprile, giorno in cui sarebbe avvenuta la prescrizione. Poi, un’altra tragedia nazionale, il terremoto de L’Aquila del 2009 quasi distrugge tutti quei faldoni e quindi si pensò di custodirli e restaurarli proprio nell’Archivio bellunese. Tra l’altro una delle archiviste dedicata alla digitalizzazione morì a causa del terremoto.
A Belluno tutto è stato restaurato e recuperato per la consultazione e ogni documento è stato digitalizzato. Il Vajont, spiega De Carlo, “è una vicenda simbolo con la quale, tra l’altro, non abbiamo ancora fatto i conti fino in fondo. Qui nel bellunese quando si parla di dissesto idrogeologico, o di dighe o casse di colmata scattano reazioni che riportano sempre al Vajont e amplificano le resistenze. L’effetto Nimbi, nel bellunese, ha sempre una eco e una forza vastissima perché quella storia è sempre presente nella nostra testa e nei nostri cuori.”
L’idea del gemellaggio adesso è sul tavolo: resta da capire se e come si può realizzare. Un punto a favore, intanto, potrebbe essere dato dal fatto che, data la carenza cronica di personale anche negli Archvi di Stato, quella documentazione processuale possa essere affidata sia a L’Aquila che a Belluno.