sabato, 22 Febbraio, 2025
Ambiente

CO2. I consumi dallo smartphone alle città

Lo studio: solo 100 aree urbane determinano effetti inquinanti globali

Ammesso che tutti sono per la decarbonizzazione. Che tutti sono per le future generazioni. Che tutti tengono all’Ambiente come alle proprie cose. Ma sta di fatto che una sola ora di smartphone produce 172 grammi di CO2. Comprare un vestito ne costa 187 grammi. A bere anche una sola birra si è prodotto ben 665 grammi di CO2. Una banana contribuisce per 70 grammi all’impronta di carbonio. Un caffè 50.

Un pollo arriva a un chilo e 300 grammi. Ogni singola ricerca su Google genera 0,2 grammi di anidride carbonica. Messa così la faccenda si complica non di poco: a ogni passo il colpevole sei tu; con conseguente, evidente, ecoansia. Viene da pensare: quanto CO2 si potrebbe evitare eliminando tutti i convegni sul CO2?

Insomma azioni quotidiane, anche solo a respirare, che Clever Carbon, un sito web della fondatrice di Women and Climate, Michelle Li, “pesa” allo scopo di “far diventare la sostenibilità una norma quotidiana.” Produrre e usare qualsiasi bene comporta immettere nell’aria un certo quantitativo di anidride carbonica. Ma anche senza produrre o utilizzare qualcosa: dormire comporta emettere anidride carbonica. 

100 città emettono il 20 per cento

Più scientifico il modello del Global Gridded Model of Carbon Footprints (Ggmcf), che si rifà anche a uno studio dello scienziato norvegese Daniel Moran della NTNU, Norwegian University of Science and Technology, che stima l’impronta di carbonio (chiamata anche emissione Scope 3) coerente a livello globale. Il risultato è che, nel mondo, sono relativamente pochi i paesi e le città che determinano una quota significativa di emissioni di carbonio in atmosfera. Pertanto la soluzione al problema non sarebbe quella di impedire a ognuno di noi di fare sacrifici quotidiani, che poi sarebbero anche inutili. Ma di convincere le massime autorità di alcuni Paesi e alcune città del mondo a ridurre le emissioni. 

Alto reddito consumi alle stelle

“A livello globale, le impronte di carbonio sono altamente concentrate in un piccolo numero di città dense e ad alto reddito e periferie benestanti”: 100 città, ad esempio, generano quasi il 20% delle emissioni totali. Nella maggior parte dei Paesi (98 su 187 valutati), le prime tre aree urbane generano più delle emissioni nazionali. Quarantuno delle prime 200 città più inquinanti si trovano in paesi in cui le emissioni totali e pro capite sono basse (ad es. Dacca, Il Cairo, Lima). In queste città, secondo questo studio, la popolazione e la ricchezza si combinano e portano le impronte su una scala simile a quella delle città con il reddito più alto.

Misure di decarbonizzazione radicali (limitazione dei veicoli non elettrici; richiesta del 100% di elettricità rinnovabile) potrebbero indurre sostanziali riduzioni delle emissioni oltre i confini della città. Nelle località ricche, ad alto consumo e ad alta impronta, queste misure possono richiedere solo un piccolo investimento rispetto al reddito medio, ma ottenere grandi riduzioni delle emissioni totali di impronta di carbonio. Conclusione. L’azione locale a livello di città è in grado di influenzare significativamente le emissioni nazionali e globali. 

Milano, la prima tra le italiane

Nel mondo le città che più di altre producono anidride carbonica sono Seul in Sud Corea, Guangzhou, Shangai e Hong Kong in Cina, New York, Chicago e Los Angeles negli Stati Uniti, Singapore, Tokio e Ryadh; tra le prime dieci. Su 500 città top-inquinanti le italiane sono, invece, abbastanza virtuose: soltanto Milano è tra le prime cento, al settantasettesimo posto. Poi ci sono Roma (149), Napoli (156) a circa metà classifica Torino (292), quasi in fondo Firenze (456).

Intervenire sulle città inquinanti 

 L’indicazione di questa ricerca è semplice: i residenti di “appena” un centinaio di città coprono un’impronta di carbonio quasi di un quarto di quella di tutta la popolazione mondiale. L’analisi, con molteplici puntualizzazioni metodologiche, ha calcolato l’impatto di 13.000 città, quindi “intervenire in poche città”, osservano i ricercatori, “potrebbe contribuire a ridurre di molto l’impronta globale.” E c’è anche di più: circa un terzo dell’impronta di un residente urbano è determinato dalle opzioni di trasporto pubblico di quella città e dalle infrastrutture edilizie. Se le città passassero a una fonte di energia più efficiente o rendessero elettrici i loro autobus pubblici, dice Moran, potrebbero ridurre le loro emissioni di almeno il 25%. “C’è molto potere nelle città”, dice, “e penso che a livello di governo più locale si possa agire più rapidamente che a livello nazionale”. 

Cresce il settore della conversione

Intanto nasce un settore industriale completamente nuovo: aziende che catturano l’anidride carbonica e lo convertono in sale, carbonato e bicarbonato di sodio per l’industria farmaceutica e per la produzione di vetro, detergenti e prodotti chimici vari. Un impianto, il Tata Chemicals Europe, avviato di recente nel Cheshire, nel nord della Gran Bretagna:  catturerà 36.000 tonnellate di anidride carbonica all’anno – con l’obiettivo di arrivare a 40.000. Un impianto sperimentale costato circa 17 milioni di sterline, con oltre 4 milioni di aiuti dallo Stato che nasce con l’obiettivo dichiarato di ridurre l’anidride carbonica in atmosfera senza necessariamente deindustrializzare il Paese. Anche l’Italia non è da meno: in Piemonte, ad esempio, c’è la Hysytech, specializzata nell’estrazione di anidride carbonica e produrre metano, idrogeno e biogas. Mentre la Co2nvert è una startup di economia circolare, friulana, che trasforma CO2 in etanolo e che ne sperimenta l’impiego nella produzione di cosmetici e profumi. Insomma, se al posto di farsi prendere dall’ansia ci si decide allo studio, alla ricerca e al lavoro, le soluzioni si trovano.

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