Di Maio si è dimesso da capo politico il 22 gennaio. Ma continua a comportarsi come se fosse la guida suprema dei 5 Stelle. Così, in un momento di particolare difficoltà, dovuta – anche ma non solo – alle pressioni in tema di prescrizione, Di Maio rompe gli indugi. Invece di invocare vertici di maggioranza, mediazioni e riti tipici di una maggioranza formata da più partiti, chiama alla mobilitazione delle piazze.
Qualcuno pensa che così l’ex capo politico voglia trasformare i 5 Stelle in partito di lotta e di governo. E che male ci sarebbe se un partito riuscisse a ben governare e non smettesse comunque di cavalcare il malcontento che la sua azione di governo ancora non riesce a dominare?
Il guaio dei 5 Stelle è che non riescono a governare i problemi e, quindi, il richiamo alla piazza sembra un modo per peggiorare la loro scarsa capacità di gestire e risolvere i problemi.
Un partito di governo può scatenare le piazze se è un partito che nella maggioranza conta poco e cerca, col ricorso alla piazza, di far sentire di più la propria voce. Non è il caso dei 5 Stelle che ancora oggi in Parlamento sono la prima forza politica e che nel governo attuale esprimono ancora il presidente del Consiglio e occupano ministeri chiave. Allora dov’è il problema?
I 5 Stelle sono da mesi allo sbando. Dal giugno 2018 per un anno sono stati in balìa degli umori e dei calcoli politici di Salvini. Spiazzati dalla crisi di agosto, sono stati costretti a governare con un partito che avevano ampiamente esecrato. Ma non hanno saputo trovare un modo per governare insieme al Pd e mantenere una identità precisa. Eppure non era un’impresa difficile, visto che Zingaretti è tutto fuorché un leader aggressivo come Salvini e che il Pd non ha preteso di imporre una propria linea al Conte 2 ma ha accettato tutta una serie di misure che erano state il fiore all’occhiello dei 5 stelle.
Nonostante questo, Di Maio non ha saputo dare un’impronta al nuovo Governo e si è rinchiuso in un fortino difensivo dei residui baluardi dei 5 Stelle: persi per strada i NO a Tav, Tap, e Ilva, e con un mezzo fallimento del reddito di cittadinanza, Di Maio&co hanno fatto una manovra di arroccamento sulla prescrizione, contro i ricorsi dei parlamentari sulle pensioni tagliate e sulla revoca delle concessioni autostradali. Poca roba. Quando giochi sempre in difesa e hai i muscoli infiacchiti è facile che la tua difesa sia debole. Renzi ha fiutato la popolarità del tema e si è fiondato con la solita delicatezza contro la prescrizione modello Bonafede.
La miopia politica dei 5 Stelle, in una fase in cui sono in difficoltà, non ha fatto vedere a Di Maio che, non potendo forzare e scatenare una crisi di Governo, non gli restava che spiazzare Renzi e il Pd e di proclamare la Giustizia emergenza nazionale proponendo una incisiva e rapida riforma assumendo subito 10.000 cancellieri, 2000 magistrati e stanziando risorse per far funzionarie i Tribunali. Invece no, Di Maio e Bonafede si ostinano a difendere una norma contestata dal 90% dei magistrati, dal 100% degli avvocati e dal 100% dei docenti di diritto.
E così i 5 Stelle si condannano alla irrilevanza: se non puoi scatenare una crisi di governo e non vuoi mediare, devi rilanciare non chiuderti a catenaccio.
Ora Di Maio invoca il bagno di folla come lavacro salvifico di una incapacità politica. Il richiamo della foresta non aiuterà i 5 Stelle a trovare un’identità ormai perduta e offuscata. I 5 Stelle devono esprimere una cultura moderna di governo e non ripetere slogan e difendere posizioni che hanno dimostrato di non funzionare.
La piazza da cui Di Maio aspetta un’esplosione di consenso è una piazza che si sente punita ingiustamente dagli errori politici del gruppo dirigente che ha fatto dimezzare in un anno lo straordinario consenso che le piazze avevano contribuito a far ottenere ai 5 Stelle.