venerdì, 22 Novembre, 2024
Il Cittadino

La Giustizia, la benda e il gattopardo

In numerosi articoli di questa rubrica ho affrontato il tema della riforma della giustizia. Articoli ispirati dalla urgenza del problema, da anni non più rimandabile, in ogni settore della giurisdizione; ma scritti rassegnati, fin dai primi tentativi reali (Ministra Cartabia, Governo Draghi, 2021) alla evidente realtà dell’impossibilità di attuare una qualsiasi riforma che abbia veramente il significato della parola («Modificazione sostanziale, ma attuata con metodo non violento, di uno stato di cose, un’istituzione, un ordinamento. In particolare, il termine è stato applicato a indicare innovazioni o mutamenti profondi nella vita dello Stato», Enciclopedia Treccani).

Con prudenza anche eccessiva il Ministro Nordio – già giudice, già pubblico ministero, poco gradito alle organizzazioni della magistratura – ha proposto, la sua timida riforma, affidata a un disegno di legge, al quale sta lavorando una commissione ministeriale, composta in maggioranza da magistrati: quelli, ritengo, più attratti dal fascino della politica che dallo scranno del tribunale.

Il potere giudiziario è il più terribile dei poteri, perché non sottoposto al controllo democratico cui devono sottostare il potere esecutivo e legislativo. Con una differenza sostanziale: se questi ultimi due poteri dovessero sgarrare è riconosciuto al popolo il diritto di ribellarsi. Un diritto che taluni considerano diritto inviolabile dell’Uomo e che alcune Costituzioni sanciscono in maniera esplicita. Un istituto, chiamato anche diritto di resistenza, che viene unanimemente riconosciuto e apprezzato da tutte le democrazie: nella mia vita ricordo il compiacimento per varie rivolte: la caduta di Pinochet in Cile, la fine del regime dei colonnelli in Grecia, il crollo del Muro di Berlino.

Diritto di ribellione che, però, non è riconosciuto contro il potere giudiziario, proprio per la sua non subordinazione alla volontà popolare. Eppure quello giudiziario è il potere, tra i tre della classica ripartizione montesquiana, che più di tutti, venendo meno il principio della sua autonomia dall’esecutivo, offre lo strumento per vessare il popolo. Qualsiasi tiranno cerca la legittimazione tramite il potere giudiziario: Erdogan dopo il fallito golpe del 2016 nei suoi confronti ha fatto piazza pulita di migliaia di avversari, compresi numerosi giudici non allineati, con condanne giudiziarie; da sempre il regime assolutista fa condannare dai giudici gli oppositori politici (in Russia ne sanno qualcosa; ma credo anche altrove); per tacere del medioevo di alcuni regimi islamici, che reprimono sempre con sentenze e con carcere legittime aspirazioni delle giovani generazioni femminili.

Digressione che ovviamente non c’entra con l’Italia, col nostro Stato di diritto, con la nostra civiltà giuridica. Ma che mi serviva per fare meglio comprendere la centralità delle norme che la riforma Nordio pone in testa al suo tentativo di riforma: l’abuso di ufficio, il traffico di influenze e la partecipazione esterna ad associazione mafiosa.

Si tratta di norme assolutamente fumose e che non caratterizzano il comportamento previsto dalla legge come reato, lasciando ampli margini di discrezionalità all’interprete; addirittura il reato da partecipazione esterna, neppure è previsto da una disposizione di legge, ma è una costruzione giurisprudenziale (un ossimoro, afferma il Ministro Nordio). Norme adattabili alle più svariate situazioni, che, unite alla obbligatorietà dell’azione penale (il precetto costituzionale, art. 112, che più di ogni altro dovrebbe essere abolito per attuare una riforma reale) rendono qualsiasi cittadino, anche il più probo, facilmente perseguibile giudiziariamente: basta una qualsiasi denuncia, anche per una inezia, perché possano teoricamente ipotizzarsi quei reati. Ed il processo è pena, come sa chi ci è passato, stando dalla parte sbagliata della cattedra; anche se alla fine, con la vita devastata, assolto.

La riforma proposta da Nordio, come già successo per la Cartabia, verrà ammortizzata. “La riforma riformata. In pejus”, era il titolo di un mio articolo del 25 luglio 2021 ed è suggestiva la coincidenza estiva: come se, approssimandosi la chiusura per ferie dell’Italia, l’istituzione che non vuole mutare di una virgola, acquisti potenza. Se mi consentite una metafora, Nordio in questo momento mi sembra come il Maestro Alberto Veronesi che venerdì sera, al festival pucciniano, ha diretto la Boheme bendato, sentendo solo la sua musica, ma non vedendo l’azione.

Il punto è che la riforma della Giustizia, per quanto dovrebbe essere (ed è) argomento di interesse generale, appassiona solamente gli addetti ai lavori. Questi, peraltro, l’affrontano in una stolta contraddizione tra categorie e attribuendo alla Giustizia il falso idolo di un compito che non le spetta e che non può svolgere: la lotta alla mafia e alla criminalità. Un idolo che sopravanza tutto e che mette in subordine tante altre esigenze della giustizia: che non è solo quella penale e che è al disastro, con conseguenze economiche che a misurarle farebbero impallidire il nostro debito pubblico.

Lotta alla mafia che la Giustizia non può svolgere per il semplice motivo che la responsabilità penale è personale e che il giudice può intervenire solo dopo avere avuto notizia di un reato. Mentre la lotta alla criminalità (diversa dalla mera scoperta del reo e della sua punizione) deve incidere sulla società, deve coinvolgere soprattutto le persone per bene, deve offrire alternative e modelli di vita.

Il giudice ha un compito delicatissimo e difficile e la sua autonomia è imprescindibile. Il riferimento che contraddistingue lo Stato di diritto è proprio il giudice a Berlino: che, però, non basta che ci sia, ma deve anche essere consultabile, efficiente e tempestivo.

Efficienza e tempestività che dovrebbero essere le finalità di una riforma che deve comportare prima di tutto una rivoluzione culturale: che oggi sembra inaccettabile all’establishment, ma che è già nella società mutata vertiginosamente e che prima o poi emergerà.

Il Ministro Nordio ha ragione di provarci e lo fa onestamente. Anche se attorno a lui fioriscono argini politici, spesso mascherati da sostegno. Intanto la riforma naviga, nessuno osa affermare che non serve, ma tutti la vogliono gattopardesca: si faccia, ma a condizione che tutto rimanga com’è.

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