Sono oggi a pregare i miei lettori perché facciano uno sforzo di immaginazione e si mettano nei miei panni per andare al momento in cui – la mattina del 19 u. s, – mi son visto sventolare sotto il naso, da Kurt il marziano, la copia appena sfornata de “Il Fatto Quotidiano”, che recava il seguente titolo di testa: FdI e Lega vogliono svuotare l’abuso di ufficio. FI pretende di cancellarlo. Davigo: “il reato è previsto da una convenzione ONU, abolirlo è vietato”. Ma che sarà mai. (punto interrogativo/esclamativo mancante, ma voglio aggiungerlo io!)
Incuriosito dal veder richiamato un simile accordo internazionale, ho voluto anticipare le solite battute di Kurt sul vizio italiano di non ottemperare agli obblighi assunti, più o meno liberamente, nei confronti di altri Paesi e così – dopo aver trovato, a pagina 6, l’articolo che dettagliava la posizione di quell’ex magistrato di Mani Pulite – sono andato a compulsare i diversi Trattati che vincolano gli aderenti alla Organizzazione delle Nazioni Unite, per individuare quello che avrebbe effettivamente potuto vietare l’abolizione del reato di cui il quotidiano parlava .
La mia ricerca non ha dato – voglio dirlo subito – il risultato temuto (o sperato, in conformità alla prospettiva da cui ci si voglia muovere), ma vale la pena di richiamare l’episodio, perché – oltre a dimostrare come le questioni politiche si accavallino spesso con quelle tecniche – conferma la bontà dell’aggettivo che spesso precede il cognome di Davigo, anche detto “Piercavillo” (“l’Eco di Bergamo”, 26 aprile 2016).
Lungi dall’essere un’offesa, quell’aggettivo mi sembra un complimento, perché l’uso strumentale che magistrati e avvocati fanno delle norme giuridiche (e, più in generale, dei princìpi del diritto) è composto essenzialmente di cavilli e più l’operatore ne conosce, più egli è apprezzato nell’ambiente in cui ha scelto di operare: questa è anche la tesi sostenuta, in anni lontani, da Piero Calamandrei nell’ “Elogio dei giudici scritto da un avvocato” (Firenze, 1954).
La fantomatica convenzione ONU, richiamata in quell’articolo, mi è dunque immediatamente apparsa come splendido esempio di cavillosità, perché se è vero (e al Marziano non è restato che prenderne atto) che le Nazioni Unite non hanno mai inteso impedire – agli Stati aderenti – l’abolizione dell’abuso d’ufficio come reato, altrettanto è vero che esistono vari trattati e convenzioni internazionali che incoraggiano quei medesimi Stati a criminalizzare, sempre e comunque, comportamenti corruttivi o abusi di autorità e la convenzione ONU contro la corruzione ne rappresenta certamente un esempio; però non è ivi previsto alcun obbligo di mantenere l’abuso d’ufficio come reato, né potrebbe essere altrimenti, perché ogni organizzazione internazionale che abbia affrontato la questione ha sempre voluto riconoscere ai Paesi che vi aderiscono una larga discrezionalità nel formulare le rispettive leggi penali che prevedano l’uno o l’altro comportamento da classificare come delitto.
In particolare, la Convenzione delle Nazioni Unite contro la Corruzione (UNCAC) – adottata nel 2003 a Merida – esorta i suoi sottoscrittori ad istituire leggi e politiche che puniscano la corruzione, comprendendovi i comportamenti che prevengano – prima ancora di punirlo – un cattivo uso del potere pubblico, in ogni sua forma e manifestazione.
Nell’UNCAC penso di aver anche individuato le due disposizioni che potrebbero essere utilizzate per sostenere la tesi dell’obbligo di mantenimento del reato di abuso d’ufficio: l’articolo 19, che riguarda l’”abuso di funzioni” e l’articolo 20, relativo invece all’ “arricchimento illecito “, ma un simile risultato può raggiungersi solo forzando la lettera e lo spirito delle norme che recano le disposizioni appena richiamate.
Ecco allora spiegato il “cavillo” di cui ho detto in precedenza.
In particolare, la prima di quelle disposizioni (art.19) esorta gli Stati aderenti a considerare la possibilità di rendere reato “l’esercizio con l’omissione di un atto, in violazione dei doveri, da parte di un funzionario pubblico, per ottenere un vantaggio indebito per sé o per un altro “.
È importante ripetere e sottolineare come la stessa Convenzione lasci però ampio spazio alla discrezionalità nazionale nell’applicazione degli articoli ivi contenuti, in quanto essi debbono essere interpretati in conformità ai principi fondamentali del sistema legale vigente in ciascuno Stato che vi abbia aderito.
Potrebbe allora aver ragione l’ex giudice Davigo? Probabilmente no, perché Egli – al pari di tutti coloro che ritengono utile tenere costantemente sotto controllo ogni persona investita di potestà pubbliche – sembra così giunto a ritenere che, più la formulazione dei reati che possono riguardarla è ampia e vaga, più semplice è giustificare la messa in accusa di quella persona e poco importa se l’incertezza derivante dalla formulazione tecnica utilizzata a tal fine possa, a sua volta, creare un clima di insicurezza fra i dirigenti pubblici, spingendoli ad evitare di assumere determinate decisioni per timore delle potenziali conseguenze penali che ne possano successivamente scaturire in loro danno.
I risultati di un tal clima possiamo toccarli con mano tutti i giorni e consiste in una paralisi decisionale che rallenta progressivamente l’azione pubblica, producendo impatti negativi sull’efficacia dell’azione di governo.
Ecco allora che il problema – in astratto di natura puramente ideologica – diventa invece politico e solo con gli strumenti della politica potrà esser risolto: i magistrati dovrebbero, dal canto loro, solamente limitarsi a prendere atto delle scelte di governo, anche quando quelle scelte vadano a limitare il loro potere di controllo preventivo nei confronti dei dirigenti a cui il governo – e cioè la politica – abbia in precedenza affidato l’esercizio di funzioni determinate.
In base a queste considerazioni, ho suggerito al Marziano di valutare diversamente la scelta del Ministro Nordio, che vuole seguire la linea invocata dalle organizzazioni rappresentative degli interessi collettivi dei pubblici impiegati, facendogli osservare come abbiano torto coloro che vi si oppongano e aggiungendo che la storia delle istituzioni pubbliche ci abbia insegnato come non basti aver ragione per poter esercitare liberamente un potere: politico o giudiziario che esso sia.
Ma se il richiamo alla Convenzione di Merida si è rivelato – in fin dei conti – una cartuccia bagnata, quell’innocuo proiettile non è servito a smuovere Kurt dalle sue iniziali posizioni e così Lui ha tirato fuori dal cilindro un altro coniglio: quello individuabile in una proposizione normativa contenuta nello schema di direttiva per l’armonizzazione delle norme sul contrasto alla corruzione, in corso di esame dal Parlamento europeo.
La proposizione (articolo 11) è – ma meglio sarebbe dire: potrebbe essere – infatti la seguente: “gli Stati membri dovranno definire il reato di abuso d’ufficio nel pubblico impiego come l’omesso compimento di un atto da parte del pubblico ufficiale, in violazione di una legge, per ottenere un indebito vantaggio.”
Purtroppo per Kurt, il richiamo a tale schema di direttiva non sembra argomento idoneo a porre fuorilegge l’iniziativa del nostro Governo in materia; non foss’altro perché il solo avvio dell’iter di approvazione di un atto normativo (in un qualunque ordinamento giuridico) è, come tale, privo di ogni forza cogente e comunque – in quanto dedicato all’armonizzazione delle varie disposizioni vigenti nei Paesi dell’Unione Europea – quello stesso atto normativo dovrà essere approvato all’unanimità per poter entrare effettivamente in vigore.
A quel punto è però probabile che l’Italia condizioni il proprio voto, di approvazione della suindicata direttiva, all’inserimento di ulteriori norme di armonizzazione relative alla presunzione di innocenza e alla responsabilità civile dei magistrati che abbiano creato danni morali e materiali ai loro indagati, per non aver saputo rispettare i principi e le disposizioni contenute nella già vigente direttiva sulla presunzione di innocenza.
Da notizie raccolte a Bruxelles sembra infatti che un gruppo di parlamentari abbia, a sua volta, elaborato uno schema di direttiva per l’armonizzazione dei diversi regimi vigenti in Europa in materia di giustizia, nei suoi profili sostanziali e processuali, e l’avvio del procedimento di sua approvazione potrebbe anche risolversi nella presentazione di emendamenti a quello, già in corso di esame, da parte del Parlamento e del Consiglio.
Se tutto questo è vero, non basteranno – per fermare l’azione del Ministro Nordio – le argomentazioni spese sulla stampa dai molti aspiranti Soloni che ogni giorno riempiono le pagine dei quotidiani: argomentazioni fatte proprie anche dal mio amico Marziano e che, presumibilmente, rimarranno in piedi indipendentemente dalla loro effettiva fondatezza.
Solo nei giorni che verranno potremo capire se siamo, o meno, di fronte ad un’altra occasione perduta per rendere più abitabile questo nostro Paese.