Giovanni Tartaglia Polcini è uno dei massimi esperti italiani di corruzione. È stato pubblico ministero dal 1996, per quasi vent’anni anni, nel distretto della Corte di Appello di Napoli. È tra i componenti del comitato scientifico dell’Eurispes, l’istituto di ricerca italiano che ha compiuto le analisi più rilevanti nel campo della giustizia.Lo abbiamo intervistato.
Perché la corruzione è una minaccia così grave da occupare quotidianamente le rassegne stampa ed il dibattito politico in tutto il mondo?
È assolutamente vero che il tema della lotta alla corruzione ha assunto sempre più rilievo internazionale e globale, in ragione delle dimensioni del fenomeno criminale di riferimento. La corruzione inquina l’economia e frena lo sviluppo sostenibile dell’intera umanità.
Ciò che non mi convince, però, è il termine di riferimento dell’attenzione mediatica nel nostro Paese, che sconta (più o meno consapevolmente) ancora una certa narrativa sull’Italia, per fortuna in via di superamento su larga scala.
Quando si sente parlare così tanto di corruzione a livello internazionale ci si riferisce infatti alle sue forme più gravi, ben lontane da quello che è l’oggetto delle discussioni più accese nel nostro Paese ed ormai distanti anni luce dalla nostra società, dal nostro ambiente istituzionale e collettivo.
A cosa si riferisce in particolare?
Mi riferisco alla grande corruzione, all’autocrazia ed alla cleptocrazia, alla corruzione cioè che colpisce i diritti umani e la stessa democrazia, che frustra le libertà ed opprime la società. Si tratta di situazioni che nel nostro sistema sono del tutto impossibili. Anzi, l’Italia ha storicamente sviluppato gli anticorpi per questo tipo di minacce ed è un esempio globale ed un esportatore di buone prassi per la prevenzione e la repressione di simili fenomeni. L’Italia ha ricostruito in modo pionieristico la visione “olistica” della corruzione. Ho di recente definito “liquida” la corruzione moderna. Corruzione liquida è un’endiadi che richiama il concetto di infiltrazione. Nella metafora, il liquido, sono le reti criminali ed il solido la nostra società. Più la società è coesa, meno essa consente l’infiltrazione. E, se la società mostra crepe, lì si insinua il crimine.
Più di recente si è fatta strada una nuova forma di corruzione che tocca scenari inimmaginabili fino a qualche decennio fa. Questa forma di manifestazione della corruzione può essere definita “strategica”. I prodromi di una simile modalità operativa, che corrisponde alla pianificazione e programmazione strutturata di un disegno criminoso, come strategia aziendale o geopolitica, erano già apparsi in passato sullo scenario internazionale.
Questa nuova forma di corruzione sistematica, strutturata, in una parola, strategica, può agire come volano di sviluppo politico o egemonico, secondo piani ben definiti. In questi termini, pur utilizzandone le modalità, la corruzione strategica si differenzierebbe nettamente dalle forme corruttive descritte in precedenza, quantomeno sul piano finalistico.
Comprendo ora perché all’inizio della nostra conversazione diceva che la vera minaccia corruttiva non riguarda l’Italia.
L’Italia possiede un sistema fortissimo di tutela della legalità, un arsenale multilivello che fa da modello, al di là di qualsivoglia speculazione, e che è oggetto in alcuni casi di vero e proprio “trapianto” in altri sistemi giuridici nazionali, anche a noi vicini.
Sono numerosi i programmi di assistenza tecnica in materia di giustizia e sicurezza che vedono come protagonista assoluto il nostro Paese ed il nostro metodo è divenuto un caso di studio al G20.
La narrativa sul nostro ordinamento è totalmente cambiata all’estero, nei fori multilaterali e negli ambienti giuridici internazionali.
L’Italia fa scuola antimafia ed anticorruzione, molto più di quanto non si sappia.
Abbiamo compreso con decenni di anticipo rispetto agli altri i pericoli di una mafia silente e mercatista che si fa forte del potere economico corruttivo stabilmente infiltrato, senza armi o violenza fisica.
I due più grandi interpreti della lotta alla mafia nella storia Repubblicana, oggi riconosciuti come esempi di eroismo in tutto il mondo, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, lo avevano intuito e teorizzato già 30 anni fa.
E ciò che ci contraddistingue e ci rende unici è il dato che abbiamo combattuto il terrorismo e la mafia sempre all’interno della cornice dei principi dello stato di diritto, sia con riferimento alle sanzioni personali, sia rispetto al contrasto patrimoniale, come più volte riconosciuto dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo.
Che ruolo vede nella cultura della legalità per contrastare la corruzione?
Adattare il quadro normativo alla nuova fisionomia della corruzione è fondamentale. Noi lo abbiamo fatto sempre presto e bene.
È pur vero che di fronte a simili fenomenologie socio criminali non si può pensare di reagire solo reprimendo le condotte in sede penale: l’integrità e la trasparenza non si impongono solo dall’alto.
Non è il numero di adempimenti e di regole che assicura il risultato, bensì è essenziale quella svolta culturale, quella disseminazione valoriale di cui una società come quella contemporanea ha assoluto bisogno.
Nel bilanciamento tra il diritto di avere diritti ed il dovere di avere doveri ciò che rende unico il nostro Paese sono i valori scritti nella nostra Costituzione e scolpiti come su di una tavola programmatica che è ancora oggi attuale.