I Criteri Ambientali Minimi (CAM), fissati dal ministero dell’Ambiente, sono i requisiti ambientali necessari per partecipare ai processi di acquisto della Pubblica Amministrazione e “volti a individuare la soluzione progettuale, il prodotto o il servizio migliore sotto il profilo ambientale, tenuto conto della disponibilità di mercato”, come si legge nel sito del ministero. “Vengono definiti nell’ambito del “Piano per la sostenibilità ambientale” dei consumi del settore pubblico e sono adottati con Decreto del Ministero della Transizione Ecologica. La loro applicazione consente di diffondere le tecnologie ambientali e i prodotti ambientalmente preferibili, producendo un effetto leva sul mercato e inducendo gli operatori economici meno virtuosi ad adeguarsi alle nuove richieste della Pubblica Amministrazione”.
L’ultima revisione risale a questa estate, ad opera dell’ex ministro Cingolani e, per quanto condivisibili e condivisi da tutti nello spirito di fondo, la loro applicabilità ai settori della produzione dei contenitori dei rifiuti (cassonetti e buste) non sembrerebbe possibile. I produttori di contenitori di plastica dei rifiuti si lamentano di tre incongruità: l’obbligo di dover riciclare esclusivamente plastica proveniente dalla raccolta differenziata urbana del Consorzio Conai, in realtà non adatta agli impianti comunemente in uso e a garantire la qualità del polietilene ad alta intensità di cui devono essere fatti i contenitori; che la colorazione dei cassonetti e delle buste non può che essere grigia e non colorata come invece lascia intendere la norma; che i prodotti devono essere certificati “Remade in Italy”, escludendo tutte le aziende italiane che hanno anche dislocazioni in Europa.
Errore o volontà di privilegiare solo pochi? Dopo averlo chiesto nelle scorse settimane agli operatori del settore, oggi ci siamo rivolti a Claudia Salvestrini, direttore di Polieco, il Consorzio nazionale per il riciclaggio di rifiuti di beni in polietilene.
Dottoressa, i produttori che abbiamo intervistato dicono di non aver potuto partecipare alle ultime gare di appalto. Il rischio è che se non cambia la norma rimarremo senza cassonetti?
Più che altro rischiamo una severa procedura di infrazione da parte dell’Unione europea per aver ostacolato la libera circolazione di beni nell’area Schengen per la questione della certificazione Remade in Italy e la esclusione di altre certificazioni europee, a volte anche più severe della nostra. Poi sì, a lungo andare, si rischia anche di rimanere senza contenitori per i rifiuti perché nessuno può vincere le gare d’appalto. In terza istanza, qualora qualcuno fosse a conoscenza di una tecnologia che renda il mix di plastiche proveniente dalla raccolta di rifiuti urbani di Conai, come sostiene il ministero, il quantitativo fornito sarebbe comunque insufficiente se non si apre anche ad altre fonti di approvvigionamento del riciclo.
Lei sta dicendo che secondo i tecnici del ministero esistono aziende in possesso della tecnologia adatta a riutilizzare il granulato fornito da Conai?
Noi ignoriamo che esista la possibilità di utilizzare quel mix di materiali plastici allo scopo di creare cassonetti sicuri e solidi e sinceramente non credo che tutti produttori aderenti al Consorzio, leader in Italia e in Europa, siano degli sprovveduti. Non sappiamo su quali basi si fondano le convinzioni di chi ha scritto la norma e, se anche esistesse questa possibilità, significherebbe che si sia voluto privilegiare solo pochissimi.
Esistono anche altri errori tecnici?
Si e riguardano i sacchetti. La norma dice che devono essere riciclabili e riutilizzabili. E che vuol dire riutilizzabili? Che l’utente finale deve svuotarli e poi riportarseli a casa e re-igienizzarseli da soli? È una assurdità anche questa.
Detta così sembrerebbe una serie di cantonate. Siete stati ascoltati dai tecnocrati prima che legiferassero?
Si, ma siamo rimasti inascoltati. Esattamente come ora che abbiamo chiesto di intervenire con delle modifiche urgenti. anche la settimana scorsa abbiamo scritto al ministero e stiamo aspettando la risposta. Il rischio più grosso è che molti impianti chiudano e che si perdano migliaia di posti di lavoro. Oltre al fatto che non si raggiunge comunque l’obiettivo di incrementare una economia circolare sostenuta anche da noi. Ma la circolarità si basa su altri presupposti, non è così che si fa, creando un monopolio dell’approvvigionamento della materia da rigenerare.
Secondo lei da cosa nasce l’errore?
Probabilmente si è cercata una soluzione facile al problema che l’Italia non è in grado di riciclare la raccolta urbana, abbiamo troppi pochi impianti. Si è pensato che obbligando i produttori di contenitori di rifiuti, cassonetti e buste, ad utilizzarla si creasse una nuova nicchia di mercato risolutiva. Ma non si è tenuto conto delle specificità del materiale, inadeguato allo scopo se si vogliono rispettare tutti gli standard di qualità e di sicurezza che sono richiesti dalla legge ISO EU.
In sintesi, quali sono le vostre richieste?
Che si elimini l’aggettivo “urbani” dopo rifiuti. Basta lasciare l’obbligo di utilizzare, nelle percentuali stabilite dai CAM, materiale di riciclo. E che possano partecipare anche aziende che hanno impianti produttivi all’interno della Unione europea e che, quindi, siano ammesse anche certificazioni diverse da Remade in Italy. Anche perché per partecipare alle gare di appalto è ammessa una autocertificazione sui materiali. E chi controlla che sia vero? Nessuno lo fa.