Una vignetta della Settimana Enigmistica di qualche tempo fa, che mi ha divertito, ma anche molto riflettere, è quella che raffigura due donne di mezza età sedute sulle panche di una chiesa dove si sta celebrando una messa funebre, con il feretro in evidenza. La chiesa è deserta, le due donne sono le sole che sono venute a dare l’ultimo saluto al defunto. E una dice all’altra: «Aveva cinquemila amici su Facebook». Si ride, ma si ride amaro: perché la nostra socialità, anche grazie alla ormai trascorsa pandemia, è diventata sempre più virtuale, sempre più digitale, sempre più affidata a «Metaversi» di vario ingegno.
Persone attivissime su Facebook o su Twitter, che riempiono Instagram delle immagini loro e dei loro familiari, che ballano su Tik Tok sono poi frequentemente il perfetto esempio del misantropo o dell’abbandonato. Si spiega anche così il fenomeno degli haters, di quelle persone molto infelici che sfogano la propria rabbia e la propria frustrazione contro qualsiasi individuo o fenomeno da utilizzare come alibi per il proprio fallimento (subcultura dell’alibismo, di chi pensa sempre che sia colpa di qualcun altro)o di suicidi per solitudine quale quello dello Chef che ha annunciato la sua pre-costruita morte prima su Facebook.
Il fatto è che computer, tablet e smartphone formano una barriera a qualsiasi fruizione di comunità. Pensiamo: allo stadio si va in migliaia, al cinema in centinaia, la televisione la si vede spesso in famiglia, ma al computer si sta da soli, come si sta da soli in mezzo alla folla ove si hanno occhi solo per lo schermo del proprio telefonino ed acusticamente isolati con gli auricolari ad alto volume. Ridicola l’immagine del conducente con macchina elettrica, notoriamente silenziosa, che deve suonare il clacson x farsi strada fra sordi e non vedenti digitalmente isolati.
Questa condizione di isolamento è resa ancora peggiore dallo spionaggio intensivo che gli ideatori dei social network praticano nei confronti degli utenti. È un tema che preoccupa gli Stati: in Occidente il cinese Tik Tok è soggetto a limitazioni sui computer degli Enti pubblici, mentre in Cina Google e Facebook sono proibiti. Ma ad essere davvero pervasivo è il Grande Fratello dell’istigazione, molto spesso finalizzato al consumo ma che può andare anche oltre.
È esperienza quotidiana di noi tutti: se abbiamo guardato una foto di Bali, magari di un artistico tempio, la nostra bacheca si riempirà di offerte di viaggi aerei, soggiorni, balsami e altri prodotti che hanno un legame più o meno assonante con l’isola indonesiana. Se partecipiamo ad un forum sul valore del sorriso si scateneranno le offerte di protesi, interventi dentali low-cost, dentifrici e spazzolini e così via.
Attenzione, questo utilizzo dei dati che prova a intercettare i bisogni e i desideri del cliente non è solo marketing: è antropologia. Proclama che la nostra umanità è tutta in questo quadro di pulsioni, nelle impronte digitali (è il caso di dirlo) che le nostre mani lasciano su una tastiera o che il nostro viso lascia davanti ad uno schermo. E che il rapporto con i nostri simili e con il mondo che ci circonda sia di natura voyeuristica, di noi spettatori sempre più curiosi seriali delle banalità degli altri.
Stiamo costruendo un mondo fatto di un grande specchio ove ci rispecchiamo in modo adulterato, nel quale siamo talmente innamorati di noi stessi da riempirci di selfie, però allo stesso modo anche talmente preoccupati di essere brutti, goffi o sgraziati da utilizzare diavolerie come i filtri che ci rendono tutti più giovani, più belli, più atletici. Un mondo nel quale, come in due fortunati film record di incassi, non parliamo più fra noi, ma solo tramite avatar, tramite la raffigurazione immaginaria di quello che vorremmo essere e non siamo. Un mondo effimero che porta via una risorsa molto importante quale il Tempo che perso non torna più e ci lascia già più vecchi ma ignoranti quanto prima senza aver colto in quel tempo fuggito via il momento magico per alzare l’asticella del nostro intelletto nella lettura di qualche buon manoscritto sia scolastico che sociale. La foto di questo scenario è il tempo speso in treno da tante persone, spesso i più giovani, che si inebriano di video inutili su Watch, Tik Tok, Instagram.
Non c’è solo questo, beninteso: le nuove tecnologie aprono ai nostri ragazzi possibilità inedite, rendono prossimi orizzonti lontani in ogni settore, consentono cose che per la nostra generazione di uomini adulti sarebbero state impensabili. Ma c’è nelle derive sopra descritte una quota di retroumanità (tempo sottratto alle relazioni umane) e di tristezza (solitudine sociale) che sarebbe sbagliato sottovalutare. Diventiamone consapevoli perché senza fraternità non ci sarà più il genere umano mentre gli Umanoidi ad alta tecnologia che noi stiamo creando avranno apprendimenti da algoritmi di rete irraggiungibili e speriamo mai devastanti per la distruzione nell’essere degli Umani. Ecco perché la speranza di non dimenticare la Resurrezione Pasquale possa alimentare il germoglio della necessaria fratellanza umana.