lunedì, 16 Dicembre, 2024
Il Cittadino

L’epoca dei sequestri di persona

Fa veramente uno strano effetto commentare un libro che racconta una storia che si conosce benissimo e che ci ha coinvolti emotivamente nel momento stesso in cui accadeva.

Protagonista Tobia Materazzi, giovane, brillante e simpatico amico sidernese, figlio di imprenditori di origine campana trasferitisi a Siderno praticamente con la ferrovia jonica all’inizio del Novecento.

Abbiamo condiviso con lui il periodo spensierato, bello, veramente rimpianto, degli ultimi anni del liceo. Poi durante gli anni dell’Università lo squarcio – violento, tragico – del suo sequestro nel giugno 1975. Un fatto inaspettato che sconvolge, meraviglia, lascia increduli.

Lo rievoca in una lunga intervista poi raccolta in un libro (Il sequestro Matarazzi, ed. Città del Sole), un altro amico di sempre, Pietro Melia, allora giovanissimo giornalista, che come corrispondente da Locri muoveva i primi passi di una prestigiosissima carriera e che mantiene il fiuto da cronista, avendo percepito immediatamente la voglia che Tobia Matarazzi aveva di parlare della sua storia.

Così, stimolato dalle intelligenti domande dell’intervistatore, Tobia disegna un ritratto reale e asciutto della borghesia locridea dell’epoca, della convivenza con una ‘ndrangheta che era tutt’altra cosa rispetto all’idea che se ne ha oggi, oltre mezzo secolo dopo (una sorta di tacita alleanza, avevo ipotizzato in un mio recente articolo, che proprio i sequestri interruppero).

Un sequestro anomalo che rientra nella guerra di mafia che portò all’uccisione di Antonio Macrì, il boss dei boss, e che diede la stura all’epoca dei sequestri di persona da parte della ‘ndrangheta.

Pasquino Crupi, imprescindibile per chi voglia un approccio con la Calabria del Novecento, nel suo “La ‘ndrangheta nella letteratura calabrese” (Pellegrino Ed., 2010) riporta una testimonianza sul prestigio che godeva Antonio Macri a Siderno: «…Prima che fosse ucciso, avevo espresso a un gioielliere del luogo il desiderio di conoscerlo. È uno che comanda. Gli chiedete un favore e ve lo fa: è in grado di farlo. Pretende di essere ricompensato? No, non pretende nulla. Se gli mandate regali, li accetta. Tutti gli mandano regali. È vero che protegge i sidernesi? Sì, a Siderno non è mai successo niente di grave. Egli ha in pugno la maffia, è un capo importante. Dopo la sua morte, il libraio Gentile mi disse: “Era contrario al contrabbando di droga”. Non voleva che si diffondesse in Calabria: “Abbiamo tutti figliuoli maschi e femmine…”. Per questo lo hanno ucciso».

Non voleva neppure i sequestri di persona, che già dai primissimi anni ’70 erano tentati in altre zone della Calabria e avviati col clamore del sequestro Paul Getty. Così che il sequestro di Tobia Matarazzi, pochi mesi dopo l’omicidio di Antonio Macrì, il boss dei boss, palesemente – ma era esattamente l’effetto che chi lo aveva ordinato si prefiggeva – venne subito messo in relazione con la sua morte: il segno che la nuova mafia aveva il comando.

Ma la vecchia guardia era ancora forte e le questioni successorie dopo l’uccisione del vecchio boss dovevano essere  ancora sistemate. Il sequestro Matarazzi si risolve, infatti, in meno di un mese e in maniera  anomala: con la liberazione dell’ostaggio senza il pagamento di un riscatto (ma alcuni anni dopo verra sequestrata un’altra Matarazzi, cugina di Tobia).

Una storia raccontata con grande dignità e senza omertà di convenienza, manifestando con chiarezza i rapporti dell’impresa di famiglia con la ‘ndrina locale. Rapporti che non devono stupire, rapportati all’epoca. Era noto che “Massaru Peppi”, il mitico Maresciallo Delfino, lo “sbirro d’Aspromonte”,  avesse concluso un patto proprio con Macrì, perché a Polsi durante i frequentatissimi festeggiamenti della Madonna non accadesse mai nulla. Lo stesso Melia, in un suo articolo di due anni fa racconta di come l’allora Procuratore della Repubblica, per far cessare una protesta scoppiata nel carcere di Locri, fosse andato a trovare proprio il boss Macrì, anche lui in carcere. E la protesta fini lì.

Sistemata la successione del boss dei boss, e stabilite le nuove regole del potere mafioso i sequestri di persona esplosero nella Locride e la devastarono.

La borghesia calabrese fu violentata, colpendo in particolare nella nostra povera società, priva di ricchi veri (i latifondisti erano patrimonializzati, ma illiquidi), i benestanti che si presumevano avere liquidità a disposizione: farmacisti in testa.

Anche quelli molto anziani, come mio zio Vincenzo Macrì (marito di Jolanda, sorella di mio padre), farmacista di Mammola, sequestrato poco dopo il rilascio di Matarazzi, nel 1976; mai più ritornato.

La ‘ndrangheta della Locride si specializza nel sequestro di persona e l’inaccessibile Aspromonte diventa la prigionia di decine di ostaggi.

Ci vogliono anni perché si capisca che riscatti più grossi si possono ricavare rapendo ricchi imprenditori del Nord. Ma da qui anche reazioni inaspettate (plateali quelle di Mamma Casella, incatenatasi al Cristo dello Zervò), che i mafiosi non erano pronti ad affrontare e, soprattutto, un’attenzione diversa dello Stato, che finalmente interviene: magari con qualche polemica, perché – si diceva – avrebbe  pagato direttamente alcuni riscatti di ostaggi settentrionali.

L’ultima sequestrata è stata Alessandra Sgarella di Milano, nel 1997, rilasciata a Locri nel 1998.

Col nuovo millennio la ‘ndrangheta è altro: più indecifrabile, più difficile, più complessa; presente sul territorio per una questione di prestigio e di arruolamento, ma votata più agli affari finanziari nelle zone ricche del mondo, che a regolare con omicidi e violenze le questioni di paese..

Ecco il libro di Pietro Melia mi ha riportato a tempi dimenticati.

Cito gli amici personali che hanno vissuto il dramma del sequestro: i farmacisti Frascà, Lanzetta, De Sandro, Colistra (quest’ultimo non tornato); poi ancora altri come Morgante, Falletti,  Medici; il commovente sequestro della giovanissima Maria Antonietta Raschellà, col fidanzatino Carlo Speziale che impone di essere sequestrato anche lui; mio cognato Bernardo Toraldo, sequestrato fuori zona, nella sua azienda agricola di Calimera: la sua liberazione, dopo 105 giorni di prigionia, il 5 gennaio 1979, la gioia più grande, seconda solamente alla nascita dei miei figli.

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