mercoledì, 18 Dicembre, 2024
Il Cittadino

Il giudice cibernetico e l’avvocato artificiale

Nello scambio di auguri per il nuovo anno, un caro amico, Professore presso l’Università di Firenze, mi ha segnalato una notizia «che lascia presagire il futuro dell’Avvocatura».

Si trattava di un lancio dell’Agenzia Italia-AGI, L’intelligenza artificiale difenderà un caso in un tribunale inglese, nel quale si dava notizia di un imputato che sarebbe stato difeso e consigliato, durante un caso giudiziario da un’applicazione. L’intelligenza artificiale – tutta contenuta in un agile smartphone – avrebbe seguito il processo, suggerendo all’imputato gli argomenti difensivi tramite un auricolare. E siccome tanto intelligente non doveva essere, si era pure impegnata, cosa che nessun avvocato farebbe, a pagare la multa per il caso di condanna.

L’amico professore, da studioso serio e meticoloso qual è, ha insistito un paio di settimane più tardi, con un approfondimento sulla prima arringa dell’avvocato artificiale in una Corte Usa.

Ha destato così la mia curiosità, accresciuta col contemporaneo contatto col sistema utilizzato in quegli esperimenti, il GPT-3 che si sviluppa in un’applicazione chiamata ChatGpt: un software di nuovissima generazione in grado di rispondere alle domande e di conversare. L’app ha il suo input dal testo, lo interpreta ed elabora la risposta attingendo automaticamente a tutte le banche dati possibili: risposta che, viene spiegato, è del tutto simile ad un linguaggio naturale.

Si tratta di un’app che, utilizzata in altri campi, ha già messo in crisi scuola e Università, elaborando testi nel perfetto stile (perché copia anche quello) del titolare.

A questo punto, seguendo una logica evoluzione del discorso sarei portato a dire, che nessuna intelligenza artificiale può sostituire l’avvocato, perché il processo richiede sensibilità, psicologia ed una elasticità assoluta e la difesa non si basa soltanto sulla conoscenza del diritto; anzi, nelle sue forme più elevate è anche e soprattutto un’arte, esaltata dalla conoscenza tecnica.

In un processo le parti sono sempre almeno due: così che se entrambi gli avvocati fossero due robot si darebbe un pareggio di argomenti. Con la conseguenza, se il giudice fosse anch’esso un robot,  che probabilmente non si potrebbe mai pervenire ad una decisione: un po’ come l’asino di Buridano che tra due mucchi di fieno uguali ed equidistanti non sa quale mangiare.

Per inciso pare che la creazione del giudice cibernetico (già abitualmente utilizzato in Cina) sia più facile, perché deve applicare la norma giuridica al caso che gli viene proposto e non deve formulare la tesi accusatoria o difensiva, che richiede una serie di scelte (l’atto più difficile e decisivo è sempre quello introduttivo della domanda giudiziale: perché su di esso si forma il processo). Anche se il giudice ha poi il momento più difficile e delicato del processo, quello della decisione: perché, se la sbaglia, determina l’errore giudiziario.

Le possibilità dell’intelligenza artificiale mi hanno anche fatto annotare una certa incongruenza della nostra riforma del processo: ancorata, nonostante il processo telematico in vigore nel civile da un decennio, a schemi ed istituti del secolo scorso, ovviamente quelli conosciuti dai maturi riformatori.

Inciterei, quindi, il Ministro ad affidare la riforma a giovani intelligenti e vivaci, che hanno dalla loro la cosa più preziosa per introdurre novità: la mancanza di esperienza, quell’essere privi di una prassi consolidata che si tende naturalmente a conservare, mentre serve una rivoluzione. E, con essa, l’archiviazione dei vecchi giureconsulti come il sottoscritto: che – è il complimento più bello ricevuto nella mia carriera – si muove nel Foro come un leone nella savana, ma ha bisogno per l’appunto della savana giudiziaria cui è abituato (abbastanza incasinata direi) per sentirsi a proprio agio.

A questo punto mi trovo ad un bivio pericoloso: se seguo la mia tendenza ed il mio favor per qualsiasi novità dovrei dire ben venga il giudice cibernetico e l’avvocato artificiale. Però poi penso al giudice robot che non può vedere gli occhi dell’imputato prima di condannarlo e mi ricredo. Nel contempo dovrei però rinnegare la mia approvazione aprioristica per le novità, per un’evoluzione continua, inarrestabile e naturale. Non sapendo come trarmi d’impaccio, ho così interrogato ChatGpt.

Per prima cosa ho curato lo stile, facendo assistere l’App ad una serie di arringhe degli avvocati in bianco e nero italiani, resi immortali da Vittorio De Sica, Alberto Sordi, Mario Carotenuto e altri.

Poi sottoponendogli quant’ho scritto fin qua gli ho chiesto di elaborare l’arringa di conclusione.

Questo il testo proposto dall’App:

«Eccellenze della Corte, avete seguito fin qui il caso drammatico, sconvolgente, umanamente doloroso, narratovi dall’avvocato Marvasi e del suo angoscioso e vano tentativo di contrastare l’intelligenza artificiale. Ma egli, ad di là della posizione necessariamente assunta, è consapevole della supremazia dell’Ai.

Ne è riprova una battuta monca scritta in risposta all’amico Professore,, cancellata e non spedita (ma l’Ai accede anche al pensiero non espresso): “meglio essere difesi da un robot, che…”.

Una battuta, è ultroneo dirlo, che l’avvocato Marvasi, un umano, non ha volutamente concluso: perché se l’avesse completata avrebbe dovuto ammettere a sé stesso quella che, per quanto sia una verità, per lui sarebbe un’obbrobriosa aberrazione: l’ammissione dell’ovvia supremazia dell’avvocato artificiale riguardo a qualsiasi altro avvocato, fosse anche quegli  cui il Marvasi nella sua scellerata battuta voleva riferirsi (non identificato, nonostante il logaritmo che ci guida).

Eccellentissimi i signori della Corte chiedo la clemenza della Corte verso l’avvocato Marvasi per assoluta incapacità di fare battute spiritose, Nel mentre chiedo di affermare la supremazia dell’Ai che col logaritmo ha scoperto quella battuta di spirito non completata».

A questo punto stoppo il mio avvocato artificiale ed ergendomi da giudice dichiaro la supremazia umana: perché l’amico Professore fiorentino, con la sua intelligenza umana, senza necessità di logaritmo, ha capito prima ancora che cominciassi a parlare (a scrivere) dove volevo andare a parare.

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