Dopo i maialini Mangalitza, continuiamo il nostro viaggio attraverso i piccoli produttori italiani di eccellenze dell’agrifood per scoprire quanto le loro attività siano tutelate e quanto, invece, risentano della concorrenza di grandi aziende spesso meno attente al prodotto ma più presenti ai tavoli della politica. Questa volta siamo andati in Umbria, nella cantina Neri in Località Bardano, in provincia di Orvieto. Si tratta di un’azienda a conduzione familiare che tramanda un mestiere e un amore per le proprie radici da tre generazioni. A guidarci nel bellissimo complesso medievale ristrutturato dalla famiglia, con tanto di grotte etrusche dove invecchia il vino, è il giovane Enrico Neri, terza generazione di vignaioli.
Parliamo un po’ della storia di questo posto.
Queste terre le comprò mio nonno nel 1951. A quell’epoca c’erano solo alcuni filari e qualche ulivo. Negli Anni ’80 mio padre decise di impiantare dei veri vigneti con l’intenzione di essere dei semplici conferitori di uva. Poi la svolta nel 2006, quando abbiamo iniziato a diventare dei piccoli produttori con la voglia di avere una propria etichetta. Siamo partiti da varietà internazionali, come lo Chardonnay, il Sauvignon per le uve bianche e il Merlot, il Cabernet e il Sangiovese per le uve rosse. Poi abbiamo capito l’importanza e il valore dei vitigni autoctoni e negli ultimi anni ci siamo dedicati solo a Procanico, Grechetto, Malvasia e Verdello. Quest’anno abbiamo anche piantato sette ettari e mezzo di Sangiovese.
Quali sono le vostre eccellenze?
Sicuramente l’Orvieto, di cui facciamo anche il classico superiore, il Ca’ Viti, ma puntiamo molto anche a rilanciare l’invecchiamento dell’Orvieto classico, che ha perso terreno negli ultimi anni. Ogni anno, infatti, mettiamo via 700 bottiglie e le facciamo invecchiare nelle grotte etrusche con ottimi risultati.
Un bianco invecchiato è una rarità. Quanta differenza fa l’invecchiamento in grotta?
Vuol dire garantire un tasso di umidità e una temperatura sempre costanti, difficile da raggiungere tenendo le bottiglie negli scaffali. Anche i tappi si mantengono molto meglio.
Questa poi è l’unica zona di Italia ad avere la muffa nobile doc, ci racconta come si ottiene?
La muffa nobile segue lo stesso disciplinare dell’Orvieto: 60% uve dell’Orvieto e 40% libero. Nel caso nostro per il 70% usiamo al 100% uve autoctone storiche e per il 30% uve Sauvignon che si prestano bene alla formazione della tipica muffa botrytis. Si lasciano le uve sulla pianta fino a novembre, permettendo alla muffa bianca che si forma sugli acini di nutrirsi del grappolo senza distruggerlo come nel caso del Sauterne. Subito dopo la vendemmia, i grappoli si mettono direttamente in pressa interi, perché sono uve particolarmente fragili che vengono messe a fermentare a temperatura controllata di circa 14 gradi. Quando il grado zuccherino, che contraddistingue questo vino, raggiunge circa i 100 grammi per litro la fermentazione viene interrotta a freddo. Di questo naturalmente si produce davvero una quantità ridotta, dalle 2.000 alle 4.000 bottiglie l’anno, non di più.
Per realizzare prodotti così di nicchia avrete bisogno di notevoli finanziamenti ogni anno, siete aiutati ad esempio dai consorzi?
No, non tanto. Noi investiamo di nostro continuamente, soprattutto in macchinari per i campi e per le cantine. Poi cerchiamo di assecondare la transizione ecologica con soluzioni green. Siamo stati tra i primi a utilizzare i pannelli solari e abbiamo 4 stazioni meteo per monitorare costantemente i terreni in modo da risparmiare mezzi, gasolio e soprattutto il numero dei trattamenti in caso di infezioni. Proprio con queste stazioni meteo poi le possiamo prevedere, mentre altri fanno trattamenti da calendario, anche 12 volte l’anno, contro i nostri 4 di quest’anno. Anche per i fondi PSR [programmi di Sviluppo Rurale –ndr.] confidiamo nella nuova programmazione, perché quella precedente contemplava pratiche davvero troppo complesse e problematiche.
A livello politico da chi siete rappresentati?
Noi facciamo parte della Fivi, Federazione Italiana Vignaioli indipendenti, che fortunatamente è arrivata a sedere al Tavolo verde del ministero.
Chi sono i produttori indipendenti?
Sono tutti quei piccoli produttori che fanno questo come unico mestiere e che seguono l’intero processo, dalla coltivazione, alla produzione del vino, all’imbottigliamento fino al consumatore. Sono quelli che conoscono la terra, le piante, i prodotti e che sono garanzia di cura e qualità certa, ma anche quelli schiacciati al momento delle decisioni dai grandi produttori.
Quali obiettivi si pone l’associazione?
Soprattutto di cambiare la legge per la quale nei consorzi contano di più i grandi produttori di uve e che non necessariamente sono anche produttori di vino. Sarebbe giusto invece introdurre il principio: una persona un voto.
In Francia appartenere ai “Produttori Indipendenti” è un marchio di qualità. E così anche in Italia?
Si ma non siamo ancora abbastanza conosciuti perché siamo circa 1.300. Fortunatamente, però, ogni anno ci sono sempre più richieste di ingressi nella Fivi e al mercato annuale di Piacenza sono sempre più numerosi i visitatori e gli operatori anche internazionali. Se riusciamo a cambiare il sistema di voto finalmente avremo il giusto riconoscimento. Per fare questo mestiere ci vuole davvero tanta passione, non è facile portarlo avanti negli anni.