Due fatti di cronaca (anzi, tre) riportano in primo piano la questione giustizia. O meglio: evidenziano la cultura (distorta, secondo il mio come sempre opinabile pensiero) con cui si guarda ai fatti: qualche volta perfino con distorsioni (culturali, appunto) persino nei magistrati.
Accade, infatti, che si guardi ai fatti col pregiudizio – che è addirittura un pensare contro i principi fondamentali della Costituzione – di ritenere la colpevolezza dell’indagato. Fino a spingersi al teorema davighiano che siano colpevoli anche le persone che, incappate in evidenti deliri inquisitori, siano state assolte: perché l’assoluzione non significherebbe innocenza, ma soltanto che non siano state trovate prove adeguate della sicura colpevolezza.
Si tratta della presunzione di innocenza, principio giuridico basilare, affermato senza mezzi termini dalla Carta Costituzionale, che nel rito dei nostri processi penali – con la prassi della presentazione da parte degli accusatori alla stampa, prima ancora di proporli alla magistratura giudicante – viene calpestata continuamente con “’imputato o il semplice indagato, subito additato come certo colpevole.
Presunzione di colpevolezza esaltata dalla carcerazione preventiva, per la quale si tiene in galera un presunto innocente per un tempo lunghissimo (nel barbaro Egitto – che ci ha indignati tutti per la detenzione di Zaki e per l’omertà nel caso Regeni – il limite è di due anni; da noi fino a tre anni).
Presunzione di colpevolezza che – spiace dirlo da parte di un avvocato che crede nel diritto solo perché ha fede che alla fine compaia quel “giudice a Berlino”, che sia finalmente “giusto” e più forte finanche dello Stato – proprio il CSM, l’organo costituzionale di autogoverno della magistratura, ha posto a base di una recente sanzione disciplinare.
Si tratta del trasferimento d’ufficio di due magistrati della Corte d’Appello Civile di Catanzaro, rei di essere stati una sola volta a cena a casa dell’On. Avv. Giancarlo Pittelli, un anno e mezzo prima che lo stesso venisse arrestato con l’operazione “Rinascita Scott” che inquisisce la ‘ndrangheta vibonese.
Una sanzione consentita dall’art. 2 del Regio Decreto sulle “Guarentigie” della magistratura, che nell’affermare l’inamovibilità dei giudici prevede che «essi tuttavia possono, anche senza il loro consenso, essere trasferiti ad altra sede o destinati ad altre funzioni, previo parere del Consiglio superiore della magistratura… quando, per qualsiasi causa indipendente da loro colpa non possono, nella sede occupata, svolgere le proprie funzioni con piena indipendenza e imparzialità».
Da quella unica cena il plenum del CSM, molto disquisendo sulla previsione normativa della “non colpa”, retoricamente usata a danno dei due magistrati, dichiarati incolpevoli, ma proprio per questo soggetti alla sanzione del trasferimento: stabilito che non potevano sapere delle indagini sull’Avv. Pittelli un anno e mezzo prima del suo arresto e senza una minima ombra sul loro operato di giudici.
Quindi, presupponendo il CSM l’Avv. Pittelli colpevole, ignorando completamente la presunzione di innocenza dello stesso e senza neppure farsi sfiorare dal dubbio che i due giudici – estratti dal mazzo tra le decine di magistrati con cui un avvocato e parlamentare di quella levatura aveva certamente rapporti – sarebbero stati sanzionati non solo ingiustamente, ma anche del tutto ingiustificatamente, se quegli venisse assolto.
«Ma qui si aggiunge assurdo all’assurdo», come ha prontamente notato Tiziana Majolo (Il riformista, 24 novembre 2022): «perché la notizia di quella cena del 16 marzo 2018 tra magistrati e avvocati a casa dell’onorevole Pittelli sarebbe emersa da una richiesta di archiviazione di un’inchiesta sulla massoneria. All’interno di questa “evanescenza” (come avrebbe detto il dottor Lupacchini) l’avvocato catanzarese aveva un bel trojan nel telefono, proprio come Luca Palamara, e con quello i carabinieri sono andati a caccia di reati. E hanno trovato la cena. Niente reati, a tavola, quella sera». Nessun reato, nessuna violazione di segreti investigativi. Ma una “non colpa” conclamata ed aggravata dal non avere valutato, i due giudici, che anche se non potevano sapere della futura accusa contro Pittelli, certamente erano a conoscenza della precedente clamorosa inchiesta “Poseidone”.
In essa l’Avv. Pittelli era uno dei principali indagati nell’inchiesta, che ipotizzava illeciti nella gestione dei fondi comunitari nel settore della depurazione, da parte di una pretesa associazione per delinquere finalizzata al riciclaggio e violazione della legge Anselmi sulle associazioni segrete.
La presunzione della colpevolezza di Giancarlo Pittelli rimane pienamente operante.
Poco importa che egli sia stato pienamente assolto (l’inchiesta “Poseidone” si è chiusa con l’archiviazione della sua posizione, addirittura per insussistenza della notizia di reato).
Ho quasi consumato tutto lo spazio a disposizione della Rubrica.
Mi restano poche righe, un accenno soltanto agli altri due fatti “di giustizia” che mi hanno colpito.
Il primo di essi è il fermo in Germania del camionista che ha investito e ucciso il noto campione di ciclismo Davide Rebellin. Notizia che i media hanno tutti dato col rammarico che il camionista non possa essere arrestato, perché in Germania non è previsto il reato di omicidio stradale: considerazione che mi induce ad enunciare il rilievo che la stessa azione può essere reato per un ordinamento e non per un altro. Quindi una scelta puramente legislativa, dipendente da contingenze fattuali o politiche. Ciò che è sempre pericoloso per il Diritto: in Cina e nei regimi totalitari per legge è reato manifestare e protestare; la vergogna umana del nazismo ci ha insegnato che, per legge, si bruciavano gli ebrei.
Ma che mi induce anche a riflettere che l’azione che concretizza il reato debba essere descritta dalla norma con precisione chirurgica e non debba dar luogo a dubbi. Ciò che in Italia non sempre avviene: perché il legislatore – incantato dai “mandarini” di cui si circonda – tende a formulare norme fumose che si prestano a più interpretazioni, espandendo così il potere dell’interprete.
Fino a determinare il caso, definito ma non risolto nei giorni scorsi da una dichiarazione di prescrizione del GIP di Milano, relativo all’indagine di 38 docenti nell’Università di Bari (tra i quali la Ministra Bernini) nell’ambito di alcuni concorsi. Per il PM i fatti non concretizzavano il reato, per il GIP sì: da qui l’estinzione del decennale procedimento per prescrizione.
Rifletto: se i giudici stessi dubitano se quel comportamento costituisca reato figuratevi un cittadino: che, però, ha il diritto di saperlo prima, e non dopo dieci anni di imputazione, di avvocati, di spese.