L’ho già scritto in questa rubrica: la rivoluzione più grande che ho avuto la ventura di vedere nella mia vita è rappresentata dall’emancipazione, una liberazione anzi, della donna.
Avevo anche presagito, in qualcuno dei miei articoletti, che il modello occidentale, la libertà e la dignità conquistata, il diritto di non dover nascondere il proprio corpo, avrebbero inevitabilmente contagiato anche le donne di culture diverse da quelle occidentali.
Come sta accadendo in questi mesi in Iran, dopo l’omicidio di una diciottenne, Mahsa Amini, che si era mostrata in pubblico con un ciuffo di capelli che le usciva dal velo islamico. Con una protesta che sta portando ad una rivoluzione, perché dalle scarne notizie che arrivano, risulta che si sono uniti alla protesta anche i maschi: quindi non una protesta di genere, ma una istanza sociale e culturale generale: la caduta del velo – perché a ciò si arriverà – sarà un evento storico, paragonabile alla caduta del muro di Berlino, una ulteriore clamorosa rivendicazione di libertà.
Associo nella mia mente i fermenti e gli aneliti di libertà contro le restrizioni della dittatura iraniana ad un mutato clima sociale e culturale.
Al di là delle imposizioni imposte da restrizioni religiose e politiche vivono e vedono un modello diverso imporsi universalmente. È un modello irresistibile perché la libertà e la giustizia sono due concetti irresistibili: che possono essere frenato, addirittura negati o applicati in maniera distorta: ma che alla lunga trionfano.
Così in Iran il velo delle donne è solo un simbolo: di un vergognoso limite alla loro istruzione, alla cultura, al diritto di esprimersi nel lavoro, nella società, nella famiglia. Alla libertà di poter viaggiare da sole, vivere da sole. Libertà – tenetelo ben presente – negate certamente alle mamme di quelli della mia generazione.
È un clima culturale che mi auguro molto che somigli a quello che ha determinato da noi la più formidabile delle stagioni delle riforme: quella che aveva portato allo Statuto dei Lavoratori (1970) e al nuovo diritto di famiglia (1975). Leggi del migliore tipo: perché non determinanti un comportamento imposto dal legislatore, ma perché regolavano un sentire già socialmente avvertito, fenomeni e comportamenti già presenti nella società.
Ma ciò che mi ha riportato sull’argomento è l’arresto in Pakistan del padre di Saman Abbas, la ragazza pakistana scomparsa a Reggio Emilia nel maggio 2021 e che si presume sia stata uccisa dai familiari, mi riporta sull’argomento della liberazione della donna (proprio mentre scrivo queste note l’Ansa dà notizia che i Ris avrebbero rinvenuto a Novellara, non lontano dal casolare dove viveva la famiglia di Saman Abbas, dei resti umani che potrebbero essere della ragazza).
Qualifico l’omicidio di Saman come corrispondente al barbaro istituto del delitto d’onore che, in Italia, aveva resistito (in uno all’altrettanto barbaro “matrimonio riparatore”) finanche alla riforma del diritto di famiglia.
Un omicidio che risponde a quella falsa morale che quel tipo di cultura determinava e determina. Quella cultura da noi messa in crisi ed in ridicolo da alcuni fatti di cronaca, ripresi dal cinema con due capolavori: “Divorzio all’italiana” (1961), il delitto d’onore come rimedio all’ indissolubilità del matrimonio, di Pietro Germi, con Marcello Mastroianni e una bellissima sedicenne Stefania Sandrelli, che avrebbe ispirato sulle spiagge siciliane la famosa “Sapore di sale” di Gino Paoli; “La moglie più bella” (1970) di Damiano Damiani, sulla vicenda di Franca Viola che, destando scandalo (oportet ut scandala eveniant N.d.A.) rifiutò il matrimonio riparatore: anche qui per interprete una musa sedicenne, la incantevole Ornella Muti.
Ma quella cultura a mio avviso seppellita – mentre ancora era viva nel sentire di gran parte della popolazione adulta, specie meridionale – da Sciascia e soprattutto da Alberto Arbasino con Specchio delle mie brame (1974) e con le sue considerazioni sull’onore: che non era basato sul modo di relazionarsi con le persone, ma collocato in una precisa sede: mai localizzata in posizioni “elevate” (la testa, gli occhi), ma sempre in basso in organi oscuri e imbarazzanti fra le cosce.
Dunque un clima culturale che in Italia determina, nell’ordine cronologico, l’abrogazione del reato d’adulterio (1968), l’introduzione del divorzio (1970), la riforma del diritto di famiglia (1975), il regolamento dell’aborto (1978); e, finalmente, solo il 5 agosto 1981, con la legge 442, l’abrogazione delle disposizioni sul “Delitto d’onore” e quelle sul “matrimonio riparatore”: il matrimonio visto come mezzo riparatore che cancellava il sequestro di persona e lo stupro di una donna. Istituto che spiega perché il reato di stupro – addirittura fino al 1996 – era considerato dalla legge un reato contro la morale, non contro la persona: tanto che se il carnefice si dichiarava disposto a sposare la vittima, la morale era salva: evidentemente ritenendo la sottomissione della moglie al marito e l’adempimento del “dovere coniugale” un bisogno del maschio, non della donna (“non lo fo per piacer mio, ma per dare un figlio a Dio”).
In Italia il primato politico conquistato da Giorgia Meloni è la testimonianza più clamorosa di una eguaglianza di genere assoluta, neppure favorita da “quote rosa” obbligatorie e stucchevoli. Offensive per la donna, dal mio opinabile punto di vista.
Se Giorgia Meloni fosse stata esponente di un partito di sinistra sarebbe sta celebrata – con una retorica tipica di una sinistra che perduta la strada del contatto col popolo sa solo esaltare retoricamente alcune situazioni – come un’eroina.
Ma forse per lei è meglio così, perché il suo partito l’ha trattata da uomo politico.