Potrà sembrare incredibile, ma ho vissuto il Medio Evo. Anzi, mi correggo: non vissuto – ero un fortunato -, ma più precisamente assistito da spettatore alla vita di persone che nella Calabria rurale degli anni ‘60 vivevano in pieno Medio Evo.
Questa la prima considerazione, il primo pensiero che mi ha suscitato questo intrigante “Salvatore lo faremo ragioniere” di Salvatore Sarcone (Mondadori, 2021).
Una ragione assolutamente personale che mi ha avvinto. È di questa che voglio parlare – e facendolo dirò incidentalmente del libro -, non certo con l’ambizione di una tardiva recensione che non avrei avuto alcun titolo per fare; e di certo neppure accostabile a quelle eccellenti già dedicate all’opera, fin dalla sentita prefazione di Augusto Minzolini.
Conosco Salvatore Sarcone – il professore Sarcone, tra i più noti aziendalisti di Roma – da una ventina di anni. Abbiamo amici in comune ed insieme partecipiamo ad un cenacolo cultural-giuridico, il così detto “Club del lunedì”, spontaneamente sorto attorno a Federico Tedeschini.
Sapevo che Salvatore fosse calabrese, del crotonese, ma poco di più. Lo scorso febbraio, in occasione di un premio di Ius Arte Libri dell’attivissima amica Antonella Sotira, scopro invece del suo libro e le vicende della sua vita. Da allora ho sul comodino il suo volume, subito acquistato, raddoppiato alla vigilia dell’estate da un’altra copia direttamente regalatami dall’Autore.
Eccomi così immerso in una storia che mi ha portato alla mia esperienza da spettatore, del Medio Evo: di un periodo di qualche anno più antico al Medio Evo cui avevo assistito da fanciullo, mirabilmente narrato e vissuto da Salvatore sullo stesso mare Jonio calabrese, un centinaio di chilometri più a nord (lui di Cutro; io di Locri).
Eccomi così trasportato da Salvatore alla mia infanzia, quando accompagnavo mio padre, medico condotto a Locri, nelle sue visite domiciliari: con una vecchia Seicento rossa (ricordo addirittura la targa: RC 19667), con la quale attraversando fiumare e piste, si arrivava alle povere abitazioni dei contadini dell’epoca, spesso senza elettricità. Mi stupiva sempre, dalla mia posizione privilegiata – figlio del medico! – scoprire la miseria: che non mi spiegavo, che non giustificavo. Scoprire case di una sola stanza, dove dormivano in nove, dieci; anche di più. Scoprire anche il dramma di malattie: vi assicuro che tra un compagno di scuola poliomelitico “borghese” e un giovane poliomielitico contadino c’era una differenza di condizione abissale. Ecco che allora la storia di Ilario – il fratello cieco, ma il punto di riferimento di Sarcone, “il vero capofamiglia” – mi commuove e mi riporta la solidarietà e soprattutto l’uguaglianza, la non discriminazione, che mio padre mi insegnava.
Così, nella mia lettura, sono un bambino che accompagnavo mio padre proprio davanti alla casa di Salvatore, miracolosamente volata da Cutro a Locri. Mi vedo nell’aia della casa a giocare con gli altri bambini, senza differenze; c’era pure Salvatore, certamente, un poco più grande di me; ma anche la sorella poliomielitica.
E, incredibilmente, tanta voglia di vivere, quasi felicità, un trionfo della vita in un’abitazione piccolissima, in quella Calabria agricola e poverissima. Famiglie numerose: i figli dei contadini erano ricchezza, forza lavoro. Così come la famiglia di Salvatore, dieci persone di cui otto figli, con tre di loro portatori di handicap, un cieco totale, una poliomelitica, un semicieco. Affidati alla Provvidenza prima di tutto. Ma vivi e consapevoli.
E mi rendo conto – ecco perché tengo questo libro da tre mesi sul comodino – della mia condizione fortunata: con un percorso molto simile a quello di Salvatore, ma indubbiamente da me attraversato con minori sacrifici e addirittura con qualche agio.
Sono tante – mutatis mutandis – le analogie; ma non dimenticate lo Stato di partenza: lui di famiglia poverissima; io di famiglia borghese, dalla nascita indirizzato alla laurea, non ad altro; mentre per lui la scelta dell’Istituto Professionale diventa una conquista insperata, tanto sa scriverci un libro. E, badate: scuola tecnica, non liceo. A quello neppure osava pensare un bambino povero di quel Medio Evo calabrese.
Eccoci entrambi in collegio; lui in un convitto a Salerno, patteggiando una retta ai minimi termini; io dai Gesuiti in Sicilia. Entrambi fuggiti dallo stesso. Tutti e due poi arrivati comunque all’Università e poi a Roma (sempre con quella decina d’anni di distanza; ma a Roma, se non ho capito male, arriviamo nello stesso tempo: nel 1971).
Con la fortuna di trovare un Maestro: lui il professor Cassandro, io il professor Barillaro.
Così il ragioniere – e già sembrava un miraggio – diventa professore.
Una vita, quella di Salvatore, da meditare e che deve fare riflettere: si può vincere. Serve volontà e tenacia. Lo studio, la cultura, è la chiave.
Un libro da leggere con attenzione e rispetto, perché insegna una cosa essenziale: si può fare.
Grazie, Ragionier Salvatore!