“A chiunque fu dato molto, molto sarà chiesto; a chi fu affidato molto, sarà richiesto molto di più” (Lc 12,39-48). Leggo il Vangelo secondo Luca, il passo nel quale ho sempre creduto: perché è naturale ed è sacrosanto che chi è di più, debba fare di più, debba dare di più, debba spendersi per sé e per l’altro. Non si tratta di un principio materiale o fisico, piuttosto di un dogma spirituale che attiene appunto all’essere e che poco ha a che fare con l’avere.
IL TALENTO ATEMPORALE
Infatti possedere dei beni materiali in più degli altri, è una condizione di per sé immateriale, caduca, fittizia, temporale; mentre essere di più è una condizione di partenza, senza tempo: eterna come un talento, un dono in potenza che diverrà atto con la crescita e la formazione dell’individuo e che resterà parte fondativa del sé. È per questo che da chi possieda un dono, un talento, una speciale essenza, si pretende il massimo dell’impegno: perché non lo bruci, non lo sprechi e non faccia torto a chi quel grande potenziale non l’ha ricevuto.
IL POTENZIALE FITTIZIO
Esiste chi in effetti un potenziale lo costruisce tramite lo studio, lo sforzo, la volontà, e ancor più spesso per mezzo della rabbia, dell’invidia verso il talento naturale e chi ce l’ha. Eppure quel potenziale non sarà mai simile a quello donato, viscerale, unico – sarà sempre una copia, una forzatura: e perciò in quanto tale effimera, fugace, momentanea. Ecco, a quelli che il talento lo imitano, lo fingono compiendo una sorta di falso ideologico dell’etica, non è richiesto niente. Niente di più di quello che in partenza, dal principio della vita, già sono. E neanche li si biasima: a loro tutto è concesso, perché proprio quel tutto in principio gli è stato negato.
NON DARE NON È UN VANTAGGIO
A questi non è richiesto di dare più degli altri, da loro non si pretende nulla: null’altro che la loro ambizione. E tutto ciò che ottengono, è tanto di guadagnato: non hanno niente da perdere e tutto è già qualcosa. Qualcosa di più. Perché il cosiddetto vantaggio di partire senza niente, sta proprio nel fatto che niente si debba restituire, né a sé stessi né al prossimo. E forse sta proprio qui lo sbaglio: nel considerarlo un vantaggio. Non dover dare nulla, non dover dimostrare, non avere niente da donare non è un vantaggio: non è un guadagno. È una perdita: la più grande delle mancanze, il più profondo dei vuoti. Quanto sprecare un talento: non ri-donarlo al di fuori perché si manifesti, sia utile all’altro e al contempo venga riconosciuto nel suo spirito di offerta.