Il Pd e il Movimento 5 Stelle non sembrano ancora consapevoli dell’opportunità che il Governo Conte offre loro di potersi rinnovare e rilanciare avendo davanti un arco di tempo di almeno 3 anni durante i quali possono governare bene, se vogliono e, intanto, ridarsi una strategia.
In questo articolo ci occupiamo di come potrebbe essere quella per un vero rilancio del Pd.
Zingaretti ha ereditato una situazione non facile che l’uscita repentina di Renzi ha, in qualche modo, semplificato.
Senza dover quotidianamente badare alle intemperanze dell’ex segretario, Zingaretti può seriamente impiegare il tempo a ricostruire un partito che negli ultimi anni è parso debole, oscillante, indeciso, insicuro di se e troppo autoreferenziale.
Il Pd è un partito che ha le sue radici nella cultura della sinistra democratica e non deve dimenticare le proprie origini. Zingaretti ha rivendicato con forza che il Pd è il pilastro del contrasto alla marea montante della destra. Bene. Ma questa affermazione deve sostanziarsi di contenuti e non solo di una rimembranza di ideali.
E qui viene il vero problema. Perché il Pd ha perso consenso in quella parte della società che in gran parte vedeva nella sinistra un punto di riferimento? Certo, rispetto ad altri partiti della tradizione socialista in Europa il Pd è probabilmente quello che, insieme al partito socialista spagnolo, ha retto meglio alla corrosione che invece ha distrutto i socialisti francesi e notevolmente indebolito i socialdemocratici tedeschi. Quanto ai laburisti inglesi, si deve notare che essi hanno avuto una involuzione massimalistica che li ha fatti tornare verso una forma di neo-marxismo fuori dal tempo.
Ma il Pd non può dimenticare di essere sceso nelle politiche del 2018 al minimo storico.
Il problema del Pd è duplice: deve riprendere lo spazio di una forza di sinistra che ha radicamento e seguito tra i ceti popolari e piccolo borghesi senza abbandonare troppo l’area moderata costituita da ceti di media e alta borghesia “illuminata” che apprezzano il riformismo prudente del partito.
Il rischio che la media e alta borghesia possano abbandonare il partito è molto contenuto, perché nel panorama politico italiano non c’è nessun’altra forza politica che potrebbe attrarre ceti di professionisti e imprenditori di solida cultura democratica e di mentalità aperta. L’eventualità che Renzi possa pescare in questa area moderata esiste ma è molto attenuato dal movimentismo renziano, dalla sua spregiudicatezza che poco piace ad una borghesia tranquilla che non ama avventure.
Per questo motivo il Pd non dovrebbe essere così esitante a riprendere lo spazio tradizionale tra i ceti popolari e piccolo borghesi che sono stati abbandonati e sono diventati la prateria dove la destra si è messa a scorazzare e a catturare consensi.
Per ottenere questo risultato il Pd deve scrollarsi di dosso l’immagine di partito paludato, prigioniero dei propri riti, distante dalle sensibilità dal linguaggio e dalla “fisicità” di quei ceti che tradizionalmente guardavano a sinistra.
Un esempio? In tutta la vicenda che riguarda l’ILVA, il leader di un partito di sinistra sarebbe andato a Taranto a discutere con gli operai, a far sentire la propria presenza e vicinanza, ad assicurare che l’azienda andrà avanti. E invece no.
Il Pd non va più nelle fabbriche, non è più presente nelle periferie delle grandi città dove ormai abita la stragrande maggioranza della popolazione che si sente abbandonata dalla sinistra e vede nella destra un punto di riferimento. Fare gli schizzinosi e limitarsi a dire che questa gente che osanna Salvini sbaglia senza correre ai ripari è un errore politico. Quei voti non torneranno mai da soli a sinistra se il Pd non saprà essere presente, non saprà parlare il linguaggio che possono capire ceti, duramente provati dalla crisi e perennemente in stato di precarietà. È stato sempre uno storico errore della sinistra lasciare che la piccola borghesia, con le sue ansie e le sue insicurezze, divenisse preda dei messaggi della destra. Ora il fenomeno si sta ripetendo e, a quanto pare, nella sinistra nessuno si pone il problema. Riprendere il dialogo con questa ampia parte della società non significa tornare a slogan massimalisti o rinverdire forme di anticapitalismo parolaio: tutt’altro. Il Pd deve mantenere la sua linea riformista moderata ma deve dar voce alle speranze e anche alla disperazione che serpeggia in ampi strati sociali che la destra tintilla aumentando le sue paure e offrendosi come scudo protettore.
Il Pd ha, inoltre, un enorme spazio vuoto da occupare presso le giovani generazioni e lo può fare diventando un partito “verde”, che fa della difesa dell’ambiente un motore di un nuovo sviluppo. In tutta Europa un ambientalismo razionale e non massimalistico sta per fortuna prendendo piede. In Italia solo il Pd potrebbe proporsi come punto di riferimento di quest’area.
E infine, il Pd deve proporsi come partito moderno, aperto, meno ingessato e più “liquido”, più presente nelle piazze e nella rete e meno prigioniero del suo chiacchiericcio interno.
Zingaretti apra le porte del partito a nuove energie, abbandoni slogan che dicono poco come “tutta un’altra storia” che sembra proiettato più verso il passato che verso il futuro e abbia il coraggio anche di cambiare nome e simbolo per segnare una discontinuità con il passato e proiettare il partito nuovo alla riconquista dei ceti popolari, piccolo borghesi e soprattutto dei giovani.
In tre anni di governo si possono compiere atti concreti per dimostrare che questo cambiamento nel DNA del Pd è cominciato e che il partito nuovo della speranza e dello sviluppo è in arrivo.