sabato, 23 Novembre, 2024
Il Cittadino

La riforma fiscale e la sfiducia nello stato

Il prossimo 13 giugno – giorno dopo i referendum sulla Giustizia, la cui “non” riforma è ancora aperta – sarà dato un nuovo avvio all’iter parlamentare della riforma fiscale, bloccata da tempo in commissione Finanze della Camera.

In una intervista ad Enrico Marro sul Corriere della Sera di ieri, il Presidente del Consiglio, Mario Draghi, ha espresso la convinzione che «verranno accolte tutte le modifiche già passate in commissione prima della rottura del 6 aprile» ed ha posto l’accento sulla necessità della riforma perché essa costituirebbe uno tra i più importanti dei provvedimenti imposti dal Piano nazionale di ripresa e resilienza.

Ma ha anche, prudentemente messo le mani avanti su eventuali dissensi, affermando che, vista l’eterogeneità della maggioranza, ci può stare qualche contrasto o disapprovazione di specifici punti. Con ciò esplicitamente comunicando ai partiti che posizioni particolari non verranno tenute in alcuna considerazione.

In effetti immediatamente un partito della coalizione governativa, Liberi e uguali, per bocca della sottosegretaria all’Economia, Maria Cecilia Guerra, ha espresso dissenso sull’articolo 2 del disegno di legge delega, perché farebbe sempre e comunque gravare le imposte soprattutto su lavoratori dipendenti e pensionati.

Mentre dalla destra si esprime fiducia che l’annunciata riforma del catasto non determinerà un aumento delle imposte sulla casa o una patrimoniale. Anche se tutti sanno che ciò non è vero.
E non esprimo qui un giudizio di merito, ma un rilievo concreto: dandosi prevalenza al valore patrimoniale di un bene immobile, piuttosto che al reddito che esso produce o potrebbe produrre, inevitabilmente si perverrebbe ad una tassazione “patrimoniale”; poco importa se si cambia il nome o, per dirla con le parole di Draghi nella citata intervista «non ci sarà più il riferimento al valore patrimoniale di ogni immobile, che verrà sostituito con le informazioni prese dall’Omi, l’Osservatorio del mercato immobiliare presso l’Agenzia delle entrate, che censisce il valore patrimoniale della zona in cui si trova l’immobile ma non quello del singolo immobile».

Sarà un problemone soprattutto per la gente del Sud e, francamente (ma non so se è ciò cui il Governo aspiri) imporrà nei cittadini un cambiamento di mentalità: anche il solo mantenere la casa dei nonni nel paesello d’origine, sarà un lusso che pochi potranno permettersi.

Ciò che non viene toccato dalla riforma è il punto cruciale del sistema fiscale italiano: la retrocessione del cittadino a suddito, allorché abbia a che fare con l’Erario.
Una retrocessione che è evidente in tutti i rapporti col fisco: dalla comunicazione che non è laica, ma richiede un interlocutore professionista, semplicemente per capire cosa vuole una cartella esattoriale o per comunicare un proprio guadagno; dalla sottomissione che si richiede allorché si chiedano chiarimenti, peggio se legati a una procedura di riscossione.

Il contenzioso tributario è in forte crescita. Assorbe, da solo, il 40% del contenzioso non penale della Suprema Corte. Nell’avvocatura la specializzazione in materia tributaria è la più ambita ed è l’unico settore che non manifesta flessioni.

In effetti l’unico momento in cui si può avere un confronto in maniera paritaria col fisco è di fronte al giudice: ma col limite che la legge stabilisce una serie di presunzioni legali a favore dell’erario, basate sul presupposto indimostrato della mala fede del “contribuente”: così definito chi tratta col fisco; ciò che dimostra consapevolezza della sudditanza e la coscienza che a chiamarlo “cittadino” gli verrebbero riconosciuti diritti che il “contribuente” non ha.

Il fisco, nei sistemi attuali, è presente nella nostra vita e nelle nostre tasche in maniera pressante.
Le imposte sono inevitabili ed è giusto pagarle, perché grazie ad esso riceviamo servizi un tempo inimmaginabili quali l’assistenza sanitaria di livello, garantita a tutti (e mi inorgoglisco da italiano che nessuno venga discriminato).

Ma la tortura che viene imposta in Italia con un centinaio di imposte e tasse da pagare e, soprattutto, da denunciare con oltre cento adempimenti fiscali annui, è unica al mondo. Si pagano balzelli su tutto; resiste anche l’arcaica marca da bollo. Pagata l’Irpef si continuano a versare soldi all’Erario: persino chi vive con € 1.000 netti al mese sa che, oltre alle imposte e contributi gia pagati, verserà un ulteriore 22% di Iva: cioè comprerà beni per € 820 e pagherà € 180 per l’imposta indiretta.

Ma si paga anche per la spazzatura (imposta non necessaria: ne parleremo); per la giustizia; per le autostrade; per l’automobile; per l’energia (qui un paradosso: il costo dell’energia è minimo, un terzo circa, rispetto a imposte, tasse, accise, aggi e balzelli vari).

Ecco la riforma vera del sistema fiscale dovrebbe tendere ad un rapporto più chiaro e più semplificato col cittadino. E dovrebbe esaltare l’automaticità del prelievo.
Io l’ho già scritto e lo ribadisco, sarei felice se lo Stato mi elevasse dal 20 al 70% il prelievo per la ritenuta d’acconto: e con l’importo incassato pagasse tutte le tasse ed imposte a mio carico, esonerandomi però da ogni adempimento e restituendomi a fine anno eventuali somme residuate.
Ma lo Stato dovrebbe dimostrare ai cittadini che ci si può fidare di lui.
Fiducia che oggi dubito che ci sia e la cui conquista potrebbe cominciare proprio da un più equilibrato rapporto col fisco.

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